Gli anni favolosi della Formula 3
Il 7 agosto 1963 il treno postale denominato “Up special” lasciò la stazione centrale di Glasgow poco prima delle sette di sera, ora locale. Doveva arrivare alla Euston Station di Londra alle quattro del mattino dopo.
Appena quattro giorni prima a poca distanza da lì i Beatles, che stavano rapidamente diventando la più grande attrazione universale, avevano suonato per l’ultima volta al Cavern Club, il piccolo locale di Liverpool dove era nata parte del loro mito e dove li aveva notati Brian Epstein, il manager che solo un anno prima aveva procurato loro l’esordio discografico. Il compenso era stato di 300 sterline, una buona cifra per allora, tanto che il bilancio della serata risultò in perdita per i gestori del club. A un certo punto andò via la luce, così Paul e John suonarono una versione acustica di ‘When I’m Sixty-Four’, canzone che sarà pubblicata solo quattro anni dopo sul leggendario Sgt. Pepper.
Il weekend precedente era in Gran Bretagna il “bank holiday” perciò il treno postale trasportava dieci volte il denaro solito, tra 2,5 e 3 milioni di sterline, un valore equivalente a oltre 50 milioni attuali.
Grazie alle informazioni fornite da uno noto come il “nordirlandese”, e agendo sulle luci di un segnale, una banda di una quindicina di rapinatori fece fermare il treno sotto al ponte di Bridego. La fuga col bottino avvenne usando un camion e due Land Rover con targa identica. Anche se la refurtiva non fu mai recuperata quasi tutti i rapinatori vennero catturati, il più famoso tra loro Ronnie Biggs che evase, e come in un film dopo una plastica facciale si rifugiò in Brasile. Lì, tra l’altro, cantò con i Sex Pistols, e fu rapito da un commando di ex militari inglesi che tentarono senza successo di riconsegnarlo alle prigioni di sua maestà.
Leggende fiorirono sull’identità dei guidatori delle Land Rover, e riguardarono diversi personaggi del mondo delle corse, tra cui Bernie Ecclestone che pochi anni fa si sentì in dovere di smentire in un’intervista. In Italia molte voci all’epoca indicavano invece come autista della rapina il pilota Boley Pittard.
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I primi anni sessanta in Italia col boom economico si portarono anche il grande successo delle corse con le formule minori, la Junior, la Monza.
Soprattutto furono gli anni favolosi della Formula 3. Molte decine di iscritti, batterie per accedere alle finali sempre combattute “con il coltello tra i denti”, anche perché i premi per il vincitore erano davvero notevoli.
Sfide tra piloti che dovevano emergere, e tra costruttori il derby Milano-Roma grazie al “sor Gino” De Sanctis che negli anni sessanta divenne un originale “garagista” nostrano, e le sue vetturette vinsero parecchio nonostante la perenne mancanza di fondi: “tutti i soldi che aveva fatto, se li è mangiati costruendo le sue monoposto. Era una bravissima persona” ricorda Cristiano Del Balzo, uno dei tanti piloti dell’epoca, figlio di un diplomatico che usava lo pseudonimo Gero per celare la propria identità (era una pratica molto diffusa).
Il “povero Tiger – racconta invece un altro driver – che purtroppo l’han fatto protestare dopo morto, perché aveva fatto delle fideiussioni di garanzia per aiutare De Sanctis. La mamma non sapeva neanche che queste carte esistevano: Tiger era un signore, una persona molto perbene, e si era trovato coinvolto in questa situazione”.
A parte Monza, e Vallelunga che si percorreva in senso antiorario, non c’erano circuiti permanenti in Italia. Pergusa era ancora un anello attorno al lago (e qualche pilota finì a mollo, spintovi nelle bagarre). Anche Imola, dove correvano soprattutto le moto, era uno stradale e le tribune e i box furono costruiti solo tra il ‘65 e il ‘66.
Gli stradali ospitavano perciò pure le monoposto. Si correva al Garda partendo da Salò, per 16 chilometri. Il Mugello misurava 66 chilometri, con dislivelli che passavano dai 205 metri della partenza a San Piero a Sieve ai 903 del Passo della Futa. Era una follia. Neanche in rettilineo i piloti potevano smettere di stringere con forza il volante dato che le strade erano a schiena d’asino.
Era una follia. E poi c’era Caserta.
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“Avevamo del pelo lungo sullo stomaco, altrimenti non ti puoi spiegare come in un Gran Premio di Formula 3, a Monza, per poter mettere uno o due litri di benzina in più nel serbatoio, un pilota sollevò il muso della macchina, ma quando fu abbassato la benzina fuoriuscì, e nel momento del pronti via entrò in contatto con il motore e prese fuoco.” Il racconto è di Massimo Natili, nel già citato ‘Benzina e cammina’.
“Il pilota era Boley Pittard, che poi morì in seguito alle ustioni. E non so se lo sai, ma si raccontava che questo Pittard fosse l’autista della famosa rapina al treno in Inghilterra.”
“Sun, girls, fun.” Sole, ragazze, divertimento. (Anni sessanta, senza dubbio alcuno). E premi alti. Non ci vuole molto per capire perché i driver stranieri, soprattutto gli inglesi, venivano a correre nella nostra Formula 3. Pittard, che in realtà si chiamava Peter e non era figlio di un pescatore delle isole del Canale, come raccontava per alimentare la propria leggenda, a Milano abitava in affitto da Lorenzo Bandini, il nostro migliore pilota di Formula 1 che a maggio del 1967 morì per via delle ustioni riportate nell’incidente di Monte Carlo.
Proprio allora offrirono a Pittard di indossare una tuta ignifuga, una delle prime, ma ci teneva al bell’aspetto e quindi continuò a usare la sua, decisamente più elegante. Quando la macchina prese fuoco al via della corsa di Monza la guidò lentamente a bordo pista. La tuta in nylon praticamente gli si sciolse sulla pelle e per questo morì dopo una settimana di sofferenze.
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Quando uno di loro moriva, e succedeva quasi ogni settimana, come raccontano tutti si pensava “speriamo non capiti a me” e si tornava a correre, con la medesima ferocia.
A Monza, nella gara dell’incendio alla partenza fatale per Pittard, vinse Giancarlo Baghetti, che aveva iniziato la carriera in modo fenomenale vincendo nel 1961 con la Ferrari i primi tre Gran Premi corsi, e dopo quelli di Siracusa e Napoli non validi per il campionato anche quello di Francia a Reims (nessun altro ha mai vinto un GP mondiale all’esordio), prima di perdere man mano interesse per le gare. Tra l’altro proprio lui, un paio di settimane prima, assieme al futuro re di Spagna Juan Carlos aveva estratto Bandini dalla Ferrari in fiamme a Monaco.
La domenica dopo corsero al Mugello stradale, e vinse Tino Brambilla mentre la nostra Lella Lombardi chiuse la finale al diciottesimo posto.
La domenica successiva, 18 giugno 1967, si andava a correre sullo stradale di Caserta.
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“Il viale dove avverrà l’incidente, Via Mondo, è un budello limitato dal muro della ferrovia a sinistra, una sottostazione dell’Enel a destra, l’angolo di una casa, protetto da una balla di paglia, che spunta in pista restringendola a sei metri.”
A Caserta venne, di fatto, scritta la parola fine. Si gareggiava alla media dei 170 all’ora tra le strade della città. I commissari di percorso erano impreparati, se non del tutto assenti.
Al settimo giro della finale ci fu l’incidente che coinvolse Beat Fehr. Nessun commissario lo segnalò, a preoccuparsi di informare i colleghi per due successivi giri fu proprio lo svizzero, che pagò con la vita la generosità.
Lo investì infatti un gruppo di piloti di cui faceva parte “Geki”, che finì per schiantarsi contro la cabina Enel.
Geki era Giacomo Russo, milanese, uno dei pochi piloti italiani nati sulle monoposto. Come molti aveva iniziato con lo pseudonimo (che gli rimase fino all’ultimo giorno) per non far sapere alla famiglia che correva. Era il più vincente di tutti, il Jim Clark delle nostre formule minori (e al pilota scozzese somigliava perfino un po’).
A ottobre del 1967 avrebbe compiuto 30 anni. Aveva due bimbe piccole, Beatrice e Daniela.
Nonostante le vetture si stessero impilando in quella curva cieca nessuno fermò la gara, così in un ulteriore incidente subì gravissime ferite Romano Perdomi, “Tiger” che a sua volta morì dopo alcuni giorni d’ospedale.
Quell’anno non fu nemmeno assegnato il titolo italiano, e le gare delle vetturette persero per sempre il proprio selvaggio fascino, anche se i piloti continuarono a pensare “speriamo non capiti a me” e a correre con la medesima ferocia. Due domeniche dopo Caserta era in programma il Gran Premio Lotteria a Monza, che non poté essere annullato: già venduti i biglietti del ricco concorso a premi: il “possessore del fortunato biglietto abbinato al pilota vincente”, come si diceva all’epoca, portava a casa un premio di ben 150 milioni. La corsa la vinse un altro britannico, Jonathan Williams che guidava la De Sanctis, ma è ricordata soprattutto per la scazzottata tra il focoso Tino Brambilla e “il tassista” Pino Babbini, pilota milanese che avrà una “seconda vita” quando diventerà autista e inseparabile accompagnatore del “senatùr” Umberto Bossi.
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A Zandvoort hanno compiuto un omicidio
Una sacca bianca e due occhi indimenticabili
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Nel prossimo episodio di ‘La serie nera’:
Colin e il Drake