Sadness, hope and comfort, dice la didascalia di una foto, esposta al museo di Amsterdam. Una foto scattata quest’anno. Non è lì perché è un’opera d’arte, è lì per quello che significa: “tutte le divisioni visibili e invisibili che separano le persone di questa città di colpo vengono meno”, dice ancora la didascalia. La foto mostra un uomo, mussulmano, che si sporge dal tetto di una Mercedes bianca. Il suo atteggiamento racconta il dolore infinito che sta provando. Attorno a lui, un gran numero di persone.
Lui è il padre di Abdelak Nouri, Appie come tutti lo chiamano, un ragazzo di vent’anni, di origine marocchina, cresciuto a Geuzenveld, un quartiere povero di Amsterdam. La fotografia racconta una storia un po’ diversa da quella che, in questo periodo, ci si potrebbe immaginare. È stata scattata a luglio. Il giorno prima il bollettino medico su Appie diceva che purtroppo su di lui c’erano le “peggiori notizie possibili”. Eppure, solo pochi giorni prima Nouri era uno dei giovani campioni più promettenti del sempre ricco vivaio dell’Ajax, il nuovo Iniesta secondo i suoi allenatori, e infatti il Barca lo seguiva attentamente. Oltre che un ragazzo amatissimo nella sua comunità, ambasciatore della scuola in cui i “lancieri” lo avevano mandato, sempre generoso con i vicini che popolano Geuzenveld. Il cuore generoso di Abdelak Nouri però aveva deciso di smettere di battere, senza alcun preavviso, durante il secondo tempo di una amichevole estiva, e i lunghi minuti in cui il suo cervello è stato senza ossigeno lo hanno lasciato con danni gravissimi e permanenti. Il fratello Abderrahim, in una bella intervista al Guardian racconta (sono in sette, i Nouri, quattro sorelle e tre fratelli) che grazie alla fede non provano tristezza nelle giornate che trascorrono a fianco ad Appie, anche se il suo sorriso e il suo entusiasmo mancano a tutti loro.
Anche il Testaccio è un quartiere popolare. Se nasci lì, ti conviene essere romanista. Se nasci lì, e hai la fortuna di andarci a giocare, nelle giovanili della Roma, quella maglia giallorossa ti resta proprio addosso, attaccata alla pelle. Infatti Francesco Totti quella maglia non se l’è levata mai, neanche adesso che ha smesso di giocare. Lanciato nel calcio della serie A da un romanista doc come Carletto Mazzone (cui si deve peraltro anche buona parte del successo di un altro straordinario campione che ha smesso quest’anno, Andrea Pirlo), Totti ha iniziato a giocare con gente che adesso ha più di cinquant’anni, e smesso quando già esordiscono ragazzini poco più grandi dei suoi figli, nati nel nuovo millennio. Anche per lui vale quello che spesso diciamo: si guardasse la bacheca dei trofei, la sua carriera sarebbe al massimo buona (soprattutto per il mondiale del 2006, dove peraltro l’unico momento in cui fu davvero protagonista è il rigore segnato praticamente allo scadere di un ottavo di finale contro l’Australia più intricato del previsto). In realtà è stato uno dei più talentuosi giocatori di sempre, invecchiato come un vino pregiato, e diventato man mano oltre che protagonista in campo anche esempio per tanti fuori dal campo. Il suo non è un addio tragico (be’ per i tifosi della Roma sì) ma la mancanza del Totti calciatore la sentiremo parecchio.
Bradley Lowery, un ragazzo appunto di questo millennio, il gol del mese della Premier League l’ha segnato ad appena sei anni, l’altro inverno. Un rigore calciato prima della partita con il Chelsea, indossando la maglia del Sunderland, di cui era tifosissimo. Bradley sarebbe stato solo un altro dei bambini che all’inizio di una partita entra in campo per mano a un calciatore, in questo caso Jermain Defoe, attaccante anzianotto di cui si diceva cha avrebbe fatto più carriera non fosse stato un “ladies’ man”. Da quando aveva pochi mesi, però, il destino di Bradley l’aveva cambiato un neuroblastoma, rara forma di tumore. E, di nuovo, lo ha cambiato il fatto che, con il suo travolgente entusiasmo (anche se tutte le sue giornate erano caratterizzate dai tremendi dolori che la malattia gli procurava) ha subito conquistato Defoe, che da quel giorno è diventato il suo migliore amico, e quella di Defoe è stata la mano che Bradley ha tenuto, con orgoglio, entrando nel mitico Wembley prima di una partita della nazionale inglese, a marzo. Quella di Defoe è la spalla su cui Bradley si è addormentato, a casa o più sovente all’ospedale, quasi ogni notte. Fino alla fine, fino a quel 7 luglio in cui Bradley non ce l’ha fatta più. Un lutto che ha colpito l’intera comunità calcistica, soprattutto quella inglese. Un lutto che ha segnato più di tutti proprio Defoe. E il calciatore di origine dominicana, anche lui cresciuto in un quartiere popolare a Londra, è ora diventato il simbolo del fatto che anche i calciatori possono non essere solo “macchine donne e denari”, ma anche grandissima capacità di puro amore.
[Un anno di sport è stato pubblicato qui]