La vita è molto più grande del basket [Lettera 32]

Giuliano Beppedi Beppe Giuliano

 

Ho avuto occasione di ascoltare, per #cosedilavoro, un’interessante relazione di Marco Martelli, dg della pallacanestro Casale. Anche se ha parlato, da gestore dell’azienda Junior, soprattutto di quello che sta attorno al parquet, oltretutto controllabile contrariamente al risultato sul campo (“non possiamo controllare un risultato, possiamo controllare la qualità dell’esperienza”) mi ha colpito l’esempio che ha portato, delle tre squadre modello cui ispirarsi, una nella NBA, una in Europa (la Stella Rossa Belgrado) e una in Italia (Sassari), citando per ognuna tre ragioni.

Per la squadra della NBA, gli Spurs di San Antonio: programmazione, metodo ed etica.La vita è molto più grande del basket [Lettera 32] CorriereAl 1
Io San Antonio ce l’avevo in testa solo per Alamo (dove la squadra di casa, nonostante la partita coraggiosa giocata da Davy Crockett, perse malamente) e per alcune canzoni country e western o tex-mex che consiglierei solo ai cultori del genere.

Oltre che per le vittorie, appunto, degli Spurs, una delle squadre più titolate della lega professionistica, di certo quella di maggior successo tra le provenienti dalla folkloristica lega ABA degli anni settanta e tra quelle che non giocano nei grandi mercati (più di loro hanno vinto solo i Celtics di Boston, i Lakers di Los Angeles e i Bulls di Chicago, questi ultimi soprattutto grazie alla carriera incredibile di MJ).

Non che sia una città piccolissima, col suo milione e tre di abitanti, e non che la squadra sia un Chievo, con il suo valore di 1 miliardo e 175 milioni di dollari (secondo Forbes), dodicesima nella lega (comunque più indietro per patrimonio che per palmarès).

Insomma, cosa fa dei San Antonio Spurs un modello da seguire? Programmazione, metodo ed etica sono risposte giuste, a cui aggiungerei la multiculturalità, che probabilmente non ti aspetteresti di trovare nel sud dello stato del Texas.

La vita è molto più grande del basket [Lettera 32] CorriereAl 2La storia delle vittorie degli “speroni” deve per forza combinarsi con la storia del loro coach Gregg Popovich (l’ha raccontata molto bene, da noi, Alessio Marchionna sul blog “L’ultimo uomo”), dalla “presa di potere” del 1996 quando da GM licenziò l’allora allenatore, lo sostituì personalmente, vincendo il campionato già due stagioni dopo, anche se nessuno gli riconosceva quelle capacità che poi emergeranno, tanto che il direttore del settimanale San Antonio Current scrisse: «La vittoria contro New York ha unito la città ed è uno dei momenti più belli della mia vita. Quanto a Popovich, be’, questa squadra avrebbe vinto anche se in panchina ci fosse stata la moglie di Lyndon Johnson».

D’altronde Popovich “non ha lo stile di Pat Riley, né l’aura filosofica di Phil Jackson”, i suoi valori (che sono necessariamente gli stessi di San Antonio) sono l’etica del lavoro, il senso di lealtà, il rispetto, l’umiltà di imparare dagli altri.

C’è una sola sua foto in cui sorride (che dice molto di lui, perché sta seduto in mezzo a dei tifosi serbi – sua madre era serba – ai mondiali 2015), non ha scritto autobiografie, morire se racconta volentieri a un giornalista di sé.

E pensare che ce ne sarebbe da raccontare: la gavetta da giocatore di poco talento nel midwest operaio, gli anni in cui spiava i sovietici durante la Guerra Fredda da un avamposto per nulla ospitale in Turchia, poi l’intuizione di puntare sui giocatori di tutto il mondo: gli Spurs sono una delle squadre più meticce, e lui è definito “colorblind”, daltonico, visto che non guarda al colore della pelle (lui, ex militare, è uno dei pochi sportivi che hanno difeso Colin Kaepernick quando, lo scorso anno, “contestava” l’esecuzione dell’inno nazionale prima delle partita, cosa che al qb di San Francisco è costata il posto, non nella squadra, in tutta la lega del football americano).

Scelta multietnica che “Pop” ebbe il coraggio di non rinnegare nonostante lo spettacolare insuccesso dell’ingaggio del primo straniero, lo slavo Zarko Paspalj, inarrestabile in campo nelle giornate buone, inarrestabile con pizza e sigarette sempre.

Popovich è alla guida degli Spurs da più di vent’anni, “rob de matt” nello La vita è molto più grande del basket [Lettera 32] CorriereAlsport di vertice: mi vengono in mente solo i ventisette anni di sir Alex allo United (e nella NBA i ventitré di Jerry Sloan a Utah), mentre “di leva” con Pop è Arsene Wenger dal 1996 alla guida dell’Arsenal.

Non ha certo perso la feroce voglia di vincere, lui ancora “go serbian” (ha inventato lui stesso l’espressione), ovvero perde le staffe e non si contiene certo con i giocatori, anche i campioni affermati, compreso quel Tim Duncan che nei suoi diciannove anni di carriera tutta a San Antonio ha vinto tutto e si è persino guadagnato l’invidia di uno come Kobe Bryant (“sono geloso di Tim che ha giocato tutta la carriera per un coach che è nella storia”).

Non si è stancato di insegnare ai suoi giocatori come va il mondo, anche fuori dal parquet: uno degli ospiti che i suoi giocatori hanno ascoltato in un briefing è John Carlos, il velocista che a Messico ’68 fece, con Tommie Smith, il famoso e discusso “saluto delle Pantere Nere”.

Sean Marks, il neozelandese che prima è stato giocatore ora è nello staff dei San Antonio Spurs, ha spiegato meglio di chiunque altro (scrive Alessio Marchionna) il senso di tutto questo: «In una squadra così multiculturale i giocatori sono costretti a comunicare, ad andare a cena, a raccontarsi le loro storie. Così imparano per esempio che l’Australia e la Nuova Zelanda sono due paesi diversi. E questo dà a Popovich la possibilità di instaurare un dialogo con ognuno di loro. E di lanciargli un messaggio: “La vita è molto più grande del basket”».

A San Antonio, come a Casale, la vita è più grande del basket. Anche se non così tanto, a ben pensarci.