«Verduno è uno» è il motto dei produttori del Verduno D.O.C.: a indicare l’originalità di una denominazione che ha il vanto di essere una delle piú circoscritte d’Italia. Non sono molti coloro che possono raccontare di aver assaggiato questo vino, e ciò non deve stupire se si consideri che l’intera Denominazione d’Origine non arriva a contare le centocinquantamila bottiglie (che sarebbe altrove la quantità di una sola cantina tutt’altro che enorme) diverse delle quali sono esportate in Nordeuropa e Nordamerica: ma chi lo conosca lo ricorda come qualcosa di davvero speciale, una chicca per estimatori.
Il territorio è uno di quei luoghi che sono leggenda nell’intero Mondo vitivinicolo: in Provincia di Cuneo, i tre Comuni di Verduno e La Morra e Roddi d’Alba (nome straordinariamente caro a ogni gourmand in quanto sede di una vera e propria “Università” per cani da tartufo); tutti e tre questi Comuni, benedetti dallo straordinario terroir delle Langhe, rientrano nel novero degli undici in cui è possibile produrre Barolo.
Ma hanno in piú – rispetto agli altri otto – la particolarità di questa piccola produzione davvero unica: ci si guardi dalla puerile tentazione di confrontare le due cosí diverse tipologie fra di loro, e ci si regali invece la possibilità di apprezzarle ognuna nel suo genere. Il paese di Verduno è situato a quasi quattrocento metri sul livello del mare: il che gli ha conferito l’appellativo di “sentinella delle Langhe” e conferisce al suo vino le caratteristiche che una simile posizione può lasciar immaginare.
Il vino si produce con almeno l’85% di uva Pelaverga. Si tratta di una varietà molto rara, probabilmente anche per una sua certa suscettibilità alle malattie. Dev’esser giunta in questa zona almeno tre (ed alcuni documenti ben piú antichi ma nettamente meno precisi farebbero pensare addirittura a sei) secoli fa, e da qui ha fatto un poco di strada diffondendosi in piccoli appezzamenti del Torinese e del Saluzzese dove rientra oggi in altre denominazioni; un’altra leggenda riporta invece che il vitigno sarebbe comparso prima nel Saluzzese e poi sarebbe stato qui portato nel XVIII secolo dal Beato Sebastiano Valfrè (al di là della storia agiografica dar per buono il Settecento costringerebbe a leggere i vaghi documenti quattrocenteschi in maniera differente).
Il liquido ha un luminoso color rubino. Profuma di frutti di bosco (fragola in modo particolare) e presenta un ampio ventaglio di sentori floreali; notevole è anche la vena di spezie che percorre tutto il patrimonio olfattivo, nella quale richiama l’attenzione con un certo protagonismo il riconoscimento tipico del pepe bianco. In bocca si distingue per la struttura non indifferente ma mai pesante, sorretta da una caratteristica acidità e da un tannino sensibile ma non abbondante.
Ci si renderà conto dalla descrizione (o ci si sarà resi conto da un assaggio che magari si avrà avuto modo di fare) che si tratta di un vino di piacevole bevibilità. Questo fatto (unito forse ai rimandi olfattivi alle spezie piccanti e certo ai facili lazzi legati al nome del vitigno) ha guadagnato a questo vino fin dai tempi della Corte di Carlo Alberto – che ne era buon estimatore – la fama di bevanda afrodisiaca.
Con un prezzo medio che all’acquisto diretto non raggiunge i dieci Euro, si presta abbastanza bene ad accompagnare per intero (dolci esclusi) un pasto non troppo complicato: il tipico antipasto di terra, un primo piatto dal sugo strutturato, pesci grassi con salse saporite, carni bianche, grigliate o umidi di carne rossa, un’attenta selezione di formaggi; ottimo – stando a quanto dice il Savoia-Carignano – anche come simpatico dopocena.