Nell’immaginario collettivo, il vigneto si trova in collina. E se è vero che la vitivinicoltura di montagna sa regalare prodotti di qualità straordinaria e che non è impossibile fare del buon vino anche da vigneti pianeggianti, è però innegabile che il paesaggio collinare sia generalmente quello dove piú a suo agio appare la vite; tanto che esistono nel mondo alcuni colli leggendarî, che col loro terreno e la loro esposizione costituiscono il territorio ideale per la creazione di vini dotati di personalità e caratteristiche ineguagliabili. Cosí, sono diverse le denominazioni d’origine che hanno assunto nel loro nome la parola “Colli” o “Colline”: proprio per evocare, già dal nome del prodotto, le qualità del tale territorio da cui esso deriva.
Solo in Piemonte, si contano almeno quattro denominazioni di questo genere: Colli Tortonesi (di cui abbiamo avuto già occasione di parlare su queste pagine digitali), Collina Torinese, Colline Novaresi, Colline Saluzzesi.
La D.O.C. “Collina Torinese” insiste sul territorio della Città Metropolitana di Torino (o, come fino a due anni fa si sarebbe detto, della Provincia di Torino); il disciplinare impone un’altitudine minima di centottanta metri sul livello del mare, e prevede l’impiego preponderante dei seguenti vitigni: Barbera e Freisa, Bonarda, Malvasie (M. di Schierano e M. Nera Lunga), Pelaverga (o Cari); sono tutti vitigni a bacca nera, e la denominazione riguarda solo vinificazioni in rosso. La D.O.C. “Colline Saluzzesi”, riguardante la Provincia di Cuneo, descrive un vino non troppo diverso: uve tutte a bacca nera (Barbera, Chatus, Nebbiolo, Quagliano, Pelaverga) impegnate nella produzione di vini soprattutto rossi, anche se qui è contemplata l’eventualità di un rosato fermo da Pelaverga e di uno spumante da Quagliano; ad ogni modo, come si vedrà il tipo di vino che i due disciplinari definiscono non è poi molto dissimile. Piú variegato e vago, l’insieme di tipologie che possono fregiarsi della denominazione “Colline Novaresi” costituisce una gamma abbastanza ampia di possibilità diverse: Nebbiolo (qui denominato “Spanna”) in larga preponderanza per la tipologia “Nebbiolo” o comunque di base per le tipologie “Rosso” e “Rosato” e “Novello”, Vespolina o Uva Rara o Croatina o Barbera per le rispettive tipologie (tutte di rossi), Erbaluce per la tipologia di bianco; come forse si potrà avvertire, quest’ultimo è il disciplinare – fra quelli citati – a esser stato approvato meno di recente.
Prima di procedere alla descrizione (pur sommaria) dei vini e a qualche altra considerazione sui disciplinari può essere il caso di spendere qualche parola su alcuni dei vitigni citati sopra, che magari non sono ben noti alla memoria di tutti. Il piú raro è probabilmente il Pelaverga (o “Cari”, com’è piú noto nel Torinese): introdotto nella zona di Verduno forse già quattro secoli fa, è poco coltivato soprattutto a causa della relativa incostanza produttiva ascrivibile anche a una certa sensibilità alle malattie; chi non l’abbia mai assaggiato può farsi un’idea immaginando un vino abbastanza semplice da Barbera di queste stesse zone, che il Pelaverga può per certi aspetti ricordare nel colore violaceo oltreché nei profumi di frutti di bosco e nella quantità non alta di tannini. Quasi certamente piú noto è il Quagliano, che per la sua generosità produttiva e la sua relativa resistenza alle malattie ha avuto piú fortuna; anch’esso autoctono del Saluzzese, anch’esso appare documentato da alcuni secoli nella zona: dà prodotti dal profumo vinoso e floreale, poco tannico e non importante di corpo. La triade Croatina UvaRara Vespolina, coltivata sia in Piemonte sia in Lombardia soprattutto per uvaggi, non dovrebbe aver bisogno di ulteriore presentazione; e cosí forse lo Chatus, o “Nebbiolo di Dronero”: dal quale, per mezzo d’incrocio con Barbera, Giovanni Dalmasso ricavò l’Albarossa.
Veniamo dunque ai vini. Per dire che, anche al di là delle “Colline” nel nome, hanno tutti diverse cose in comune fra loro (e in comune con i prodotti dei “Colli Tortonesi”, di cui avevamo parlato in altra occasione): sono in genere vini dal carattere sincero, profumati di polpa di frutta nostrana e di fiori spontanei, colorati di erbe di campo e spezie semplici, buoni da mettere a tavola in famiglia senza eccessivo pensiero, vinosi, di corpo medio e di gradevole compagnia. Naturalmente, si tratta di una generalizzazione che non può comprendere tutte le diverse sfumature produttive: ma che tenta di dare un’idea della filosofia di base che nella gran parte dei casi guida la definizione di questi prodotti.
Sarà risultato chiaro anche dalla lettura (certo non divertente, ma istruttiva) dei diversi disciplinari come il tentativo – specie in tempi piú recenti – sia quello di puntare sí sulle varietà di uva (cosa che ancora il Mercato richiede), ma legandole intanto a un territorio al quale le si giudichi legate da un rapporto qualitativo e storico di tipo vocazionale.
Due brevi parole di descrizione si vuol dare ancora su una denominazione: “Coste della Sesia”; il nome, infatti, può significare sia “sponde del Sesia” sia “versanti collinari del Sesia”: per non saper né leggere né scrivere e non rischiare di tagliar fuori qualcosa da questa ricognizione sui paesaggi collinari, diciamone qualcosa. Si trova nelle tre tipologie Rosso e Rosato (Nebbiolo – qui “Spanna” – per almeno la metà della massa) e Bianco (Erbaluce in purezza) oltre che in tre tipologie di rosso intitolate a un vitigno (Spanna, Croatina, Vespolina) che deve costituire almeno l’85% del totale. Anche qui, vini d’ispirazione tradizionale: da bere volentieri in famiglia a mezzogiorno con i piatti tipici della Regione.