di Marco Candida
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(da “Siria. Scatti e parole”, a cura di Alberto Gherardi e Alessandro Greco. Miraggi Edizioni, 2014)
Ashur posa la suola del sandalo sul terricciogiallastro e stoppa il monopattino. Il piede sinistro è rimasto sulla pedana. Le braccia sono tese, le manine strette attorno al manubrio di plastica. Per un momento, mentre solleva il capo sentendo l’aria calda delle quattro del pomeriggio lambirgli il volto, Ashur s’immagina di essere su una motocicletta, anche se il monopattino che inforca è di colore rosa e questo non lo aiuta granché a farlo immedesimare. Non importa, però.
Il veicolo gli è stato consegnato dagli ufficiali del 2° Battaglione Granatieri di Sardegna Cengio. E’ un giocattolo arrivato a lui grazie a un’iniziativa del Leo Club di Spoleto, una città italiana. Questi sono i particolari che a scuola gli è stato detto di memorizzare. Ashur si sente già fortunato così, ad averne uno. Specialmente poi dopo quello che gli è capitato tre settimane fa. Un bombardamento ha raso al suolo il complesso di edifici nel quale si trovava anche l’appartamento dove lui e i suoi genitori abitavano.
Ci sono stati molti morti – Ashur non ricorda il numero, ma è certo che siano molti, molti morti. Fortunatamente sia sua madre che suo padre non erano in casa nel momento in cui le bombe cadevano. Però il loro appartamento era andato distrutto. Sua madre aveva perso le cose che ci stavano dentro – i vestiti, un bracciale, pentole, i mobili. Il padre di Ashur aveva perso, tra le altre cose, la sua pipa – un bene per lui molto prezioso. Ben poche cose erano riusciti, i suoi genitori, a recuperare dall’appartamento. Tra queste anche il monopattino di Ashur, che lui lasciava spesso in un angolo del cortile, nonostante i rimbrotti di sua madre. Ma c’erano altri giocattoli di Ashur, dentro uno scatolone, e lo scatolone era rimasto in casa.
Ashur aveva chiesto a suo padre se lo scatolone ci fosse ancora, ma suo padre lo aveva scacciato, infastidito. Poi gli aveva risposto un “no” secco. Sotto le sopracciglia nere e foltissime, la pelle olivastra, la barba ispida, gli occhi arrossati e la fronte aggrottata in rughe che non c’erano mai state prima, il tutto a formare sul suo volto una maschera di disperazione, Ashur aveva letto nello sguardo del padre anche indifferenza. Forse, aveva allora pensato una notte steso nel suo nuovo letto a casa di zia Sabeen e zio Adad (zio Adad ha perso metà braccio a causa di una scheggia che gli si è conficcata in un gomito dopo un bombardamento; va in giro con questo troncone che alle volte sembra una salsiccia), a due miglia dal loro ex-quartiere, forse, aveva pensato quella notte Ashur steso sul letto, suo padre non glielo aveva voluto dire. Forse, dopotutto, lo scatolone poteva essere ancora là, da qualche parte, tra le macerie. Del resto, cosa poteva importare a suo padre di una cosa così piccola come i giochi di Ashur difronte alla catastrofe di un’abitazione andata completamente demolita? Come aveva potuto Ashur aver avuto anche solo il coraggio di chiedere una cosa tanto insignificante ai suoi genitori? Però, in fondo, sì, in fondo, lo scatolone poteva essere ancora là.
“Secondo me c’è ancora”, Ashur aveva detto a Balthasar, un bambino del nuovo quartiere.
“Sì? Lo pensi sul serio?”
“I miei hanno portato a casa una caraffa e alcuni vasi”.
“Fortuna. Solo fortuna”.
In quel momento avevano entrambi udito lo scoppio di bombe in lontananza.
“Hanno recuperato piatti e… e tappeti… e mobili di legno… La casa si è salvata un po’, le mura hanno retto…” aveva proseguito Ashur ormai abituato a non fare troppo caso a quel genere di rumori.
“Sì, ma…”
“I miei giocattoli potrebbero esserci ancora…”
“I tuoi mi sembrano bravi. Se i giocattoli ci sono ancora, perché non avrebbero dovuto portarteli?”
Ancora il rumore di bombe in lontananza. Gli Scud.
“Perché… Perché i grandi non vanno alla ricerca di giocattoli. Non hanno più gli occhi per queste cose…”
Balthasar si era picchiato la mano su un lato della testa. Gli occhiali che indossava gli erano traballati sul naso. I capelli tagliati come una scodella rovesciata gli erano ondeggiati sulla fronte. Aveva spalancato gli occhi. “E’ vero!”
“Quindi i miei giocattoli potrebbero essere ancora là”.
“Eh sì… Potrebbero”.
Balthasar si era afferrato un lembo della maglietta verde scuro col collo un po’ troppo slabbrato e si era asciugato un po’ di sudore dalla fronte scoprendosi un pezzo di corpo nudo. Faceva caldo.
“Io dico, andiamo a vedere se ci sono ancora…”
“Tra le macerie?”
“Andiamo io, te, Ishtar e Sargon”.
“No, Ishtar no. E’ una femmina… Frignerebbe”.
“Allora io, te e Sargon”.
“Ma è pericoloso! Ci saranno ladri… sciaccaggi…”
“Si dice sciangalli. Ne parlerò a Sargon allora. Magari lui non se la fa addosso…”
“Dobbiamo correre tutti quei rischi solo per i tuoi giocattoli?”
“Che diventerebbero anche i vostri. Potrei prestarveli…”
Adesso, tre giorni dopo questa chiacchierata, Ashur, Ishtar e Sargon si trovano nel quartiere dove sta l’ex-abitazione sventrata di Ashur.
Balthasar non si è presentato – ha avuto paura. Non così hanno fatto Ishtar e Sargon. Sono a piedi. Hanno seguito Ashur a bordo del suo monopattino rosa. Si sono fatti due miglia, incontrando sul loro cammino qualche militare, un paio di carri armati, ma fortunatamente senza assistere a scene di guerriglia. Ishtar e Sargon hanno corso dei bei rischi per accompagnare Ashur fino al suo ex-quartiere. Due miglia sono molte da percorrere a piedi in una città come al Qusayr.
Ogni tanto Ishtar sulla via verso l’ex-abitazione dell’amico gli ha detto prendendolo in giro: “Quel monopattino dovrebbe essere mio”. Ashur lo inforca quasi come se fosse un oggetto dalle proprietà magiche: è sicuro che quel giocattolo lo porterà sulla strada degli altri giocattoli.
Ashur alza lo sguardo sul panorama desolante che lo circonda e l’immagine di se stesso a bordo di una motocicletta anziché un monopattino rosa svanisce subito. Cumuli di detriti fungheggiano ovunque sul piazzale davanti al palazzo eviscerato dai bombardamenti. Il palazzo, se lo si guarda, non è immobile. Sembra lo scheletro di un pantagruelico brontosauro (uno di quelli che gli hanno mostrato a scuola su alcune illustrazioni e diapositive), ma in un certo senso sembra più vivo di prima. Cadono calcinacci dai muri. L’anta di una finestra cigola e sbatte. Ci sono sboffi di polvere e quasi ogni momento ci sono pezzi del mastodonte che si staccano e cascano a terra sfarinandosi. Il disfacimento è verticale, punta verso il basso. Il palazzo sembra un essere morente e in quanto tale sembra vivo. In un momento di limpidezza a Ashur viene da pensare che una cosa che sta decadendo e si sta disfacendo sembra più viva di quando è a posto e funziona. Gli viene quasi da pensare che forse è per questo che gli adulti arrivano, prima o poi, a distruggere sempre le cose che hanno intorno – le distruggono per farle sembrare vive.
Ashur abbandona il suo monopattino sul piazzale e assieme a Ishmar e Sargon entra nel palazzo dove sta la sua ex-abitazione. Nella prima settimana dopo il bombardamento operato dai Mig servendosi di missili Scud il palazzo formicolava di civili che estraevano corpi da sotto le macerie e recuperavano quel che potevano recuperare. C’erano anche giornalisti, telecamere. Si giurava vendetta. Si inneggiava alla rivolta. Volavano insulti a Bashar el Assad e ai kamikaze jihadisti del Fronte al Nosra. Ora, però, trascorse tre settimane, l’area è quasi deserta, anche a quell’ora del pomeriggio. Ashur, Ishmar e Sargon sanno benissimo di rischiare – Balthasar aveva ragione. Potrebbero lasciarci l’osso del collo a causa di uno di questi ultimi afflati di vita del mostro morente notati da Ashur. Ma ormai ci sono. Cercheranno di fare in fretta. Ashur è il capo fila, in mezzo sta Ishmar avvolta in una jallabia turchese, infine Sargon chiude indossando una maglietta arancione, un paio di calzoncini e scarpe di tela. Ashur ha un maglioncino blu scuro, un paio di pantaloni color topo e ai piedi i suoi sandali. I tre bambini salgono le scale. C’è puzza di chiuso. Odore di calcinacci.
L’appartamento di Ashur è al secondo piano. La porta è socchiusa. La spingono ed entrano. Dentro c’è un tavolo capovolto con una gamba spezzata. C’è un altro tavolo, più piccolo, dalla superficie scorticata. Cocci di servizi di ceramica frammisti a polveri e calcinacci. Ashur, Ishmar e Sargon vanno direttamente nella stanza di Ashur. Si sono accordati prima di partire di non guardarsi troppo intorno. Il compito è entrare e andare direttamente alla ricerca dello scatolone e dei giocattoli. Per questo Ishmar ha solo spalancato la bocca e se l’è coperta con la mano reprimendo un singulto – o qualsiasi cosa fosse. Perché è riuscita a restare concentrata sul loro obiettivo: i giocattoli, lo scatolone. Nella stanza di Ashur (o quello che ne è rimasto) c’è un armadio finito contro la parete posta a ovest. E’ inclinato di quarantacinque gradi, sembra un signore molto alto, disperato (magari avvolto da un cappotto marrone molto grande) con la fronte appoggiata al muro. Le ante dell’armadio sono aperte. Ashur e gli altri due si gettano a controllare. Non trovano niente.
“Mio padre non mi ha mentito” dice Ashur e nella sua voce suona quasi un senso di sollievo.
I tre bambini guardano ancora qua e là, ma non trovano nulla. Improvvisamente sentono l’inutilità e la pericolosità del loro gesto, e si sentono vinti, e vogliono solo essere fuori da lì. Ancora in fila indiana, superando stoviglie rotte e pezzi di ferro contorti e irriconoscibili sul pavimento, escono da quel luogo.
Sargon è di nuovo l’ultimo della fila ed è da lui che viene un grido appena escono sul pianerottolo.
“Guardate!” dice.
Ashur e Ishmar voltano il capo.
“Che cosa?” dice Ishmar.
“Dio è grande! Ci sono giocattoli di sopra! Sul piano di sopra!” dice Sargon e indica il piano superiore col dito.
“Sì – fa Ashur tornando sui suoi passi – Li ho già visti anch’io…”
“Cosa? Li hai visti anche tu?” fa Sargon.
“Sì che li ho visti, ma tanto non sono i miei…” risponde Ashur.
Ashur, Ishmar e Sargon guardano i giocattoli incredibilmente disposti sulla scala che conduce al piano superiore. Ce ne sono cinque o sei. C’è un robot sul gradino più in alto. C’è una bambola sul quinto scalino. C’è una macchinina, bella grossa, magari telecomandata, sul quarto scalino. E ci sono altri giocattoli. Sembra quasi una beffa o una specie di miracolo.
“Prendiamoli!” dice Sargon.
Sargon è più alto di Ashur e Ishmar ed è smilzo. Ha i capelli ricci, la pelle del viso scurissima.
“Sì?” fa Ashur senza voltarsi a guardare l’amico ma seguitando a tenere lo sguardo sui giocattoli.
“Scherzi? Perché no?” dice Sargon.
“Non sono i miei”, risponde Ashur.
“Ma… oh, ma chi se ne importa! Che scherzi?” fa Sargon.
“Non sono i miei”, ripete Ashur come se fosse la risposta più naturale di questo mondo.
“Ma… – fa Ishmar – Fo… Forse possiamo prenderli e portarli a scuola. Pe… Per gli altri bambini” dice e guarda Ashur come per chiedergli se sta dicendo giusto. Anche quella sembra un’azione valorosa. Ed è questo che Ashur vuole compiere, no? Un’azione valorosa.
Ishmar e Sargon guardano Ashur. Sono in attesa del suo assenso. Della sua promozione. Invece Ashur scuote il capo.
“No. Non sono nostri. Viene a riprenderseli il proprietario, se li vuole”, dice.
Ishmar e Sargon rimangono in silenzio. Fuori è impossibile non sentire il rugghio di un elicottero che passa molto a bassa quota. Poi i due si guardano. Hanno ancora l’aria disorientata. Le goccioline di sudore sulle fronti rendono i loro volti luccicanti. Ishmar lancia un’occhiata alla bambola adagiata sul quinto scalino. E’ quasi seduta, con la piccola schiena contro l’alzata. E’ vestita di verde chiaro, ha i capelli biondi. E’ molto grossa, come una neonata. Un calcinaccio si stacca dal soffitto e cade polverizzandosi sul pavimento a pochi centimetri da Sargon.
“Va bene. Usciamo da qui”.
Ashur, Ishmar e Sargon escono e si allontanano come se manchi pochissimo a che il palazzo collassi su se stesso seppellendoli. Saranno stati all’interno in tutto una decina di minuti – anche meno. Tornano verso casa sotto un cielo azzurro venato di nuvole sottili, un sole incandescente, caldissimo. Alzando lo sguardo intercettano sei F16 rombare sopra di loro.
A metà strada Ashur decide di regalare a Ishmar il suo monopattino.
“Tienilo tu. In fondo hai ragione. Va meglio per te che per me”.
Ishmar accetta il regalo di Ashur e riesce a fargli un sorriso.
“Grazie”, gli dice guardandolo coi suoi occhi neri, un po’ timidi.
Ishmar si mette in mezzo a Ashur e Sargon e i tre amici procedono verso casa.