Lessona è da quest’anno un poco piú grande di quanto fosse abituato a essere: il Comune, infatti, comprende da gennaio duemilasedici sia il territorio già di giurisdizione del Comune storico di Lessona sia quello dell’ex-Comune di Crosa. Questo evento ha l’effetto collaterale di ampliare, anche se di poco, il territorio in cui è consentita la produzione di un vino che può esser fatto solo nel Comune di Lessona: il Lessona, appunto.
Tale vino è uno dei simboli del Comune che lo produce. Altri sono lo storico campanile, tipico e suggestivo, e lo stemma della città: in entrambi questi elementi si è proposto – con una certa inventiva – di riconoscere l’etimologia del nome “Lessona” (a sentire le campane la gente avrebbe esclamato «Al’sunna», e l’emblema della città con la quintuplice ferita è descritto dal motto latino «Lesa sum»). Il vino è in un certo senso simbolo di ben piú che di quel Comune: da quando Quintino Sella (la cui famiglia produceva un Lessona già da due secoli abbondanti) lo scelse per brindare alla Breccia in Porta Pia, esso è noto come “il Vino d’Italia”.
Quella del Lessona è in effetti una delle piú importanti D.O.C. piemontesi. In gran parte si tratta di uve Nebbiolo, ma circa un quarto del totale può essere costituito dall’aggiunta di Vespolina oppure di Bonarda; il Nebbiolo è qui denominato “Spanna”, la Vespolina è coltivata in Alto Piemonte fin dal XVIII secolo e rientra in diverse denominazioni regionali sia in purezza sia in uvaggio con Nebbiolo e altre varietà (Uvarara o Bonarda), sull’uva piemontese (novarese per l’esattezza) Bonarda mi permetto en passant di rammentare che non ha nulla a che vedere con il vino dell’Oltrepò Pavese denominato “Bonarda” che si ricava da tutt’altro vitigno.
Il disciplinare prevede un affinamento minimo di poco meno di due anni, di cui un anno pieno in legno. La tipologia “Riserva”, poi, deve maturare per quasi quattro anni al minimo, dei quali almeno uno e mezzo in legno.
Questo vino si serve ottimamente in quei calici a tulipano molto ampî che capita di acquistare per fingersi esperti di vino e che nella maggioranza dei casi si rivelano migliori come piccole fioriere; per “molto ampî” intendo comunque qualcosa di ragionevole, ché le fioriere rimangono fioriere: un bicchiere ridicolmente grande o un bicchiere ridicolmente piccolo, oltre a non esser belli da vedere ed a rendere inutilmente complesso il dosaggio nel versare dalla bottiglia, sono in grado di mortificare un nettare sublime e di renderlo difficile a distinguersi dal piú ordinario dei prodotti. Il Nebbiolo, comunque, regge bene – specie con qualche anno sulla spalla – il confronto con un poco di aria in piú: scegliamo dunque il nostro bel bicchiere e versiamoci il Lessona attorno ai 16°C (consentendoci anche di salire di uno se non due gradi di temperatura, nel caso di etichette di notevole struttura), e godiamoci la tipica trasparenza del color granato che sfumerà ai bordi verso l’aranciato con l’invecchiamento; i profumi carnosi di rosa rossa e viola saranno contrappuntati da sentori piú decadenti di peonia e rosellina essiccata, mentre la ciliegia sottospirito e la marasca avranno il loro controcanto nel ricordo piú pungente di spezie scure, su cui nei vini piú giovani si stenderà un velo leggero di speziatura dolce mentre gli esemplari di maggior invecchiamento potranno presentare riconoscimenti di ferro o di fumo; in bocca il sorso è teso e vibrante, non molto alcolico, intensamente ed elegantemente tannico, fresco.
L’abbinamento non è scontato, e se non centrato può rovinare l’assaggio del vino: in generale suggerisco che l’ideale possa essere un brasato di carne bovina o un formaggio vaccino stagionato.
In particolare, proviamo con la famosa Toma Piemontese D.O.P., prodotto amatissimo – come spesso accade delle cose buone – sia dalle tavole semplici sia da raffinati gourmand. È un formaggio vaccino a pasta semidura e crosta lavata. Il latte deve provenire dal territorio indicato dal disciplinare (Provincie di: Biella, Cuneo, Novara, Torino, Vercelli, Verbano-Cusio-Ossola; oltre ad alcuni Comuni nelle Provincie di Asti e Alessandria), nel quale devono anche avvenire l’elaborazione e la trasformazione del formaggio. Come il Vino e l’Olio, il Formaggio è un mondo immenso di ricchezza e cultura: “Toma Piemontese” è solo una vaga etichetta, sotto cui una vastissima varietà di prodotti differenti viene racchiusa, diversificati per il mai identico accordo delle erbe di monte e di valle o d’alpeggio di cui si nutrono gli animali e per il periodo di stagionatura in ambienti freschi e umidi – 85% d’umidità, temperatura fra i 6 e i 10°C – che può variare fra i quindici e i sessanta giorni durante i quali le forme vengono continuamente rivoltate. Inventiamoci, però, a favor di descrizione una fredda astrazione della Toma Piemontese media: crosta appena elastica, pasta dall’occhiatura minuta, sapore gradevole intenso, aroma basilarmente delicato sempre piú caratteristico con la stagionatura. Forse, col nostro vino sarà ideale una toma semigrassa non d’alpeggio prodotta nel Sud-Est: ma bisognerebbe fare tutte le prove incrociate, e se ne ricaverebbe molto piacere ma poca salute.