Internazionale è termine che rischia di essere frainteso. I vitigni da vino si possono suddividere per esempio in: autoctoni, locali, nazionali, internazionali; o almeno in autoctoni e internazionali, e quest’ultima classificazione serve semplicemente a distinguere fra vitigni con stretto legame territoriale e vitigni che si coltivano un poco ovunque; la prima classificazione – non da tutti adottata, e per piú versi necessariamente inesatta, ma comunque utile e generalmente compresa – è un poco piú specifica: definisce “autoctono” un vitigno coltivato esclusivamente in un territorio assai ridotto cui sia storicamente legato, “locale” un vitigno diffuso sia nell’area che storicamente piú gli si lega sia in un pur ridotto ma piú ampio territorio circondario, “nazionale” un vitigno coltivato in gran quantità in un Paese e spesso in zone climaticamente anche dissimili, “internazionale” un vitigno diffuso in aree diverse del Mondo vitivinicolo e anche in diversi Continenti.
È un problema non indifferente considerare in che modo e in che misura un vino ricavato da un vitigno internazionale si possa definire “tipico”, e di che cosa sia tipico un prodotto che per definizione non ha legami particolarmente profondi col territorio che lo produce. La questione è complessa, e ho cercato fin ora di aggirarla (anche quando si è trattato dell’Alta Langa – coi suoi Chardonnay e Pinot –, ho preferito scivolare sul discorso della tipicità) in attesa di questo articoletto in cui provo a dire qualcosa.
Non ho intenzione di partire con una discettazione filosofica sulla tipicità: mi limito a un paio di fatti. Il Legislatore ha istituito la dicitura specifica “Chardonnay” per quattro diversi vini piemontesi, appartenenti a due diverse D.O.C.: Langhe Chardonnay e Langhe Chardonnay Vigna nella sola Provincia di Cuneo, Piemonte Chardonnay e Piemonte Chardonnay spumante anche nelle Provincie di Alessandria e Asti. (Vale appena la pena di ricordare come lo Chardonnay sia un emblema di vitigno internazionale, coltivato con successo – variabile: ovvio che il territorio della cittadina di Chardonnay sia particolarmente vocato, tanto per fare un esempio – in tutti i Continenti e in quantità che lo portano a classificarsi come il primo vitigno a bacca bianca del Pianeta.)
La denominazione “Langhe” – che si fregia di questo nome eccelso nella vitivinicoltura – prevede diversi vitigni, e ne acquisisce il nome di volta in volta in etichetta se del singolo vitigno in questione presenta in bottiglia almeno l’85%: “Langhe Arneis”, “L. Barbera”, “Cabernet Sauvignon”, “Dolcetto” (anche Novello), “Favorita” (anche frizzante), “Freisa”, “Merlot”, “Nascetta”, “Nebbiolo”, “Pinot Nero”, “Riesling”, “Rossese bianco”, “Sauvignon”, e “Langhe Chardonnay”; il disciplinare della denominazione “Piemonte” è particolarmente complesso – o particolarmente semplice –, nel senso che esplicita tutte le possibilità per rientrarvi che sono davvero tante e prevede la possibilità di utilizzo dei seguenti vitigni: Albarossa, Barbera, Bonarda, Brachetto, Cabernet Sauvignon, Cortese, Croatina, Dolcetto, Erbaluce, Favorita, Freisa, Grignolino, Merlot, Moscato bianco, Nebbiolo, Pinot Nero, Sauvignon, Syrah, e Chardonnay. Tanto per ribadire: fra i vitigni dei due elenchi precedenti, tutti quelli col nome straniero sono vitigni internazionali.
Serviamo in bicchieri a tulipano non troppo ampî attorno ai 7°C lo Chardonnay fermo (uno dei tre) e quello spumante a circa due gradi in meno. Il colore paglierino di fondo sarà attraversato in molti casi da sfumature verdognole, e per lo spumante da catenelle di piccole bolle che si sperano fini; la complessità altrove impegnativa dello Chardonnay qui esprimerà aromi semplici di frutta esotica e vegetazione mediterranea, con qualche sentore vanigliato o di tostature in alcuni casi; in bocca si noterà subito la freschezza, sostenuta dall’effervescenza nello spumante e mitigata da maggiore morbidezza nelle Langhe, accompagnata sempre da piacevole semplicità gustativa.
La grande versatilità dello Chardonnay e la permissiva vaghezza dei disciplinari non rendono facile un consiglio generale per l’abbinamento, che deve essere necessariamente valutato caso per caso; io non posso che attenermi al tutto-e-nulla di certe retroetichette dozzinali: perfetto come aperitivo, si fa apprezzare con gli antipasti, ottimo con primi piatti semplici e preparazioni di verdura, ben si accompagna a pesci e carni bianche, buono con formaggi freschi: insomma, fate voi (o fate fare al vostro sommelier). Ma questo è solo un mio acido sfogo: chi sia stato a tavola con me in situazioni informali sa che mi diverto a voltare le bottiglie di poco valore ed a lanciare caustiche frecciate a molto di ciò che riportino stampato.
Tornando piú professionale, consiglio – soprattutto per le denominazioni langarole, ma anche per le altre due può valere il tentativo – un abbinamento con la Robiola di Roccaverano D.O.P., prodotto autoctono come pochi altri (lo si fa risalire all’ambiente celtico e ligure): ottimo formaggio fresco a pasta cruda privo di crosta ad ampia base di latte caprino prodotto fra le province di Alessandria e Asti, si mangia fra l’uno e i venti giorni dalla produzione, e risulta un poco acidulo pur con una notevolissima tendenza dolce e una grassezza in evidenza. L’abbinamento suggerito dall’uso tradizionale (e da me) è con rossi giovani e magari vivaci – Barbera, Dolcetto, Grignolino –; se l’abbinamento con lo Chardonnay possa essere accettabile o sia da rigettare senza questione, possono dircelo solo tre cose: l’esperienza, il gusto, la retroetichetta.