Quando ad Alessandria Garibaldi “battezzava” i bambini

Garibaldidi Donato D’Urso

 
Nei primi mesi del 1867 la Sinistra parlamentare invocò l’aiuto di Garibaldi nella battaglia elettorale per il rinnovo della Camera. Il Generale lasciò allora Caprera ed iniziò un “tour” nella penisola per sostenere con la sua presenza e le sue parole gli oppositori del governo Ricasoli. Le tappe furono numerose: Firenze, Bologna, Ferrara, Venezia. Ai veneziani Garibaldi aveva promesso da tempo una visita, dopo quella mancata del 1849. Le accoglienze furono ovunque eccezionali. Dopo il Veneto, la Lombardia e il Piemonte. In ogni intervento era sempre forte il suo appello per la liberazione di Roma e contro i preti che, a Legnago, egli definì “primo flagello del nostro paese” e “sacerdoti della menzogna”.

Allorché si trovava a Torino, lo raggiunse una deputazione della Società degli Operai Uniti di Alessandria – sorta nel 1863 e della quale l’eroe aveva accettato la presidenza onoraria – che gli recò un invito a visitare la città, dove l’anno prima Garibaldi aveva sostato brevemente, recandosi ai campi di battaglia della terza guerra di indipendenza. L’appuntamento fu fissato per mercoledì 13 marzo 1867.

All’arrivo fu un tripudio di bande musicali, bandiere, ghirlande, festoni. Alle finestre ed ai balconi erano esposti drappi e tappeti. Tutti applaudivano, sventolavano cappelli e fazzoletti, lanciavano fiori. Molti erano accorsi dalla provincia. Ad accogliere Garibaldi – accompagnato da fra’ Giovanni Pantaleo, Domenico Cariolato e Giovan Battista Basso – erano in prima fila Sindaco e Giunta, molte società operaie, le scolaresche, una rappresentanza della comunità israelita e quaranta garibaldini. Notata l’assenza del prefetto Carlo Mayr, certamente per ordine governativo (e dire che nel 1849 Mayr era stato ministro dell’Interno della Repubblica Romana, che il Nizzardo tanto valorosamente aveva difeso con le armi).
La carrozza percorse tra una folla strabocchevole il breve tragitto sino alla sede della Società degli Operai Uniti, dove l’ing. Leale gli rivolse un caldo saluto concluso con le parole: “Generale! Il cuore degli operai è con Voi!”. Rispose fra’ Pantaleo e, subito dopo, Garibaldi raggiunse l’Albergo dell’Universo in via Dante. Lì si radunò una grande folla. Il Generale s’affacciò al balcone e pronunciò un breve discorso in cui, tra l’altro, affermò:
Anche a me Roma pizzica e mi solletica, ed è per questo che son con voi a far parole, ed anche pronto ai fatti se fa bisogno.(…) È roba nostra, e vi andremo come andando in casa propria, a dispetto di chi crede che non sia nostra. Nulla di meno bisogna mandare al Parlamento dei deputati che non patteggino coi clericali perché i clericali sono quelli che c’impediscono di andare a Roma. Per clericali intendo pur quelli che sono i promotori ed i complici dei clericali. Dunque il ripeto non bisogna mandare al Parlamento deputati clericali.(…) Dovete dare il programma ai deputati eletti perché non patteggino coi nemici d’Italia, e che i milioni che vorrebbero dare agli oziosi li serbino per far lavorare il popolo, e pei tanti bisogni che ha l’Italia. Fra questi vi ha pur quello di dar pane a chi non ne ha.

Per tutto il pomeriggio ricevette in albergo molte delegazioni. Ad un gruppo di studenti disse: “Istruitevi! Studiate! L’ignoranza non è fatta per un popolo libero”. Invitò le società operaie ad occuparsi attivamente di politica, altrimenti “vadano a piantar cavoli”. Dopo una frugale cena, si ritirò a riposare, mentre le strade cittadine erano ancora animate ed il palazzo comunale era illuminato da centinaia di fiammelle.

Il mattino successivo alcune signore alessandrine espressero il desiderio di offrirgli un berretto ricamato. Garibaldi accettò volentieri e raccomandò, con l’occasione, il consumo di prodotti nazionali, “e ciò particolarmente nelle mode, dove siamo troppo tributari della Francia. Se si smetterà il mal vezzo dei trovar bello e buono solo quello che ci viene di Francia o d’altrove, le fabbriche lavoreranno, guadagnerà l’operaio, il commercio fiorirà e il denaro circolerà in casa nostra e non andrà fuori”.

Venne l’ora della partenza. Strade affollatissime, nonostante una pioggia insistente. Per l’ora tarda, Garibaldi non poté trattenersi di nuovo presso la sede della Società che l’aveva invitato. Lì lo attendeva un operaio per chiedergli il “battesimo” dei tre figli (già a Verona era avvenuto un fatto analogo: una madre gli aveva presentato un bimbo di poche settimane e Garibaldi gli aveva imposto il nome di un valoroso caduto, Giovanni Chiassi). Alla stazione, quando stava ormai per lasciare Alessandria, fu rappresentato a Garibaldi il desiderio di quel padre ed egli allora scrisse su un foglietto: “In nome di Dio e del legislatore Gesù, chiamate i vostri figli dal glorioso nome dei tre martiri della causa italiana Rottini, Lombardi, Cappellini. Il 14 marzo 1867.”

Naturalmente, come già per l’episodio di Verona, la stampa cattolica e non solo italiana, giudicò blasfemo quell’atto. I sostenitori di Garibaldi sostennero che era stato equivocato il vero significato del gesto, evidentemente simbolico.
Pantaleo, Cariolato e Basso furono eletti per acclamazione soci onorari della Società degli Operai Uniti. Una lapide commemorativa della venuta di Garibaldi venne successivamente murata in via Dante, per iniziativa di Moise Salvador Pugliese, divenuto proprietario del palazzo che era stato sede dell’Albergo dell’Universo.
Pochi mesi dopo quella visita trionfale, in una sera di settembre del 1867 Garibaldi arrivò ancora in Alessandria, in ben diverse circostanze, per essere rinchiuso in Cittadella dopo l’arresto avvenuto a Sinalunga in Toscana. Ma questa è un’altra storia.