I cittadini hanno sempre amato canzonare leggermente gli uomini del contado; canzonatura bonaria e punto offensiva. Il cittadino si sente superiore per cultura, per usi e costumi, e attribuisce al contadino un’ingenuità maggiore di quella che esso ha, perché sotto i suoi modi semplici il lavoratore dei campi nasconde spesso un grande buon senso e anche molta furberia.
Una volta ad Alessandria era unito il villaggio di Borgoglio, subito al di là del ponte sul Tanaro, ove oggi sorge la Cittadella, essendo stato demolito nel Settecento l’umile villaggio, antichissimo, esistente assai prima di Alessandria. I rioni antichi erano quattro: tre sulla destra del Tanaro, e cioè Marengo, Rovereto e Gamondio, uno sulla sinistra del fiume, Borgoglio, abitato da contadini.
I cittadini pigliavano in giro quelli di Borgoglio, gli uomini della gleba, i pìsta-uatarón, e ne inventavano d’ogni sorta sul loro conto, ma per ischerzo, perché si volevan bene tutti e non dimenticavano che Gagliaudo, quello della vacca, era uscito proprio da Borgoglio a salvare la città. Dicevano per esempio i cittadini arguti che i contadini di Borgoglio non sapevano mai in quali giorni della settimana si fosse. Per capire quando era domenica che facevano? Venivano sul ponte e stavano lì ad osservare le scarpe dei cittadini; se erano ingrassate di fresco allora capivano di essere in domenica, e tornavano a Borgoglio a portare la notizia.
Dicevano ancora i cittadini che quando uno di Borgoglio doveva venire alla piazza Tanaro, separata dal villaggio solo per la lunghezza del ponte, i compaesani che lo incontravano gli dicevano: – Buon viaggio – come se avesse dovuto andare a Roma! Questo è ricordato nel seguente sonetto del poeta dialettale Crispino Jachino, del secolo XIX, ove si sente il rimpianto di un passato di semplicità e di bonomia, quando la città era piccola e tutti si conoscevano e si volevano bene.
Quandi che i nostr’amsé, Diu j-abia an gloria,
Is mandavu a ra festa l’os condiùr,
E an mes d’ar pont d’Burgó s’davu antra lur
Er bon aviagi, avnenda chi an Valoria,
Quand ch’ieru ar so bastemmij sta liloria:
– Uh, zira Bacu, sbuffaron, britt mur! –
U j-era bon-na feid, u j-era amur,
Sensa tanc ravas-ceri e tanta boria.
Sei; is sufiavu u nas ant ra mantlota.
In avu nent l’arloiri a chilugram,
Ma ra parola a-s dava anmà na vota.
E adess? e adess an fev nent meraveja
Se fina i bul an s’i papé i son gram,
E chi ch’sa nent rustì ch’sara buteja.
Sono le antiche costumanze. Nelle feste la frase d’augurio era: Vi porto l’osso che condisce, l’osso ben grasso. Vi era un unico ponte, coperto, che univa Borgoglio alla attuale piazza Tanaro, che allora si chiamava Valoria o Val di rat; era il ponte di Borgoglio. Erano quelli i tempi in cui gli uomini non si odiavano, ma solo si pungevano con epiteti bonarii, come sbuffaron, da sbuffare, colui che sbuffa con aria di superiorità; non erano offese, ma punture alla buona.