Ci sono ancora storie da raccontare [Il Superstite 174]

arona-2di Danilo Arona

Il locale apriva alle undici di sera. Disponeva di un ampio parcheggio ma la gente era solita disporre le macchine con poco amore per la simmetria e la disciplina e molto senso dell’umorismo. Tendenze al rischio perché nella composita clientela si poteva incappare in qualche armadio sui 100 kg  con  nessuna voglia di alzarsi dal tavolino per andare a spostare una vettura.
In ogni caso era lì, alla Sacra Bettola, che ascoltavi la musica migliore in città. Valeva la pena di sfiorare qualche virtuale pericolo. Anche perché alla Sacra Bettola si poteva ancora fumare in barba ai divieti imposti dall’Unione Europea.

Alle undici e un quarto piazzai la jeep nell’ultimo buco rimasto davanti alle cucine. Qualcuno di sicuro da lì a poco mi avrebbe chiuso la via di fuga ma ero certo che sarei stato tra gli ultimi ad andarmene. Uscii e transitai davanti all’insegna mobile messa di traverso accanto alla porta d’ingresso. Un bel volto di donna, mora, sui quaranta, sorriso malinconico e dati anagrafici, spiccavano nella penombra come una sfida lanciata all’ignoto: Giorgia BarossoStories Yet To Tell.

Conoscevo la tipa, una jazzista non convenzionale con una voce calda e suadente da Barosso raccomandare su una spiaggia caraibica, con la volta stellata e un paio di margarita ben fatti a portata di zampa. Potenza della musica, Duke Ellington o Cole Porter chi lo sa, ma quella voce di femmina era meglio di un viaggio nel tempo e nello spazio. Peraltro, anni prima, chissà dove, l’avevo già incrociata. Si chiamava Giorgia Barrows, ma non sembrava la pupa di un gangster. Ma sto in età, non chiedete alle mie meningi di spremersi troppo per ricordare.

Spinsi la porta, entrai. La Sacra Bettola già straboccava. Uomini della notte, musicisti, medici e infermiere dell’Ospedale Civile, ragazzine che si spacciavano per donne navigate e stupende cinquantenni agghindate come ragazzine. E al banco un paio di amici di prosecco. Ah, sì, qualche giornalista del foglio locale. Senza dubbio una serata da non perdere.

Salutai in modo sin troppo solenne tutti e nessuno in particolare. Quindi raggiunsi il Tavolo del Morto alla destra del palco. Divanetto contro il muro e supporto circolare con tre puff degli anni sessanta. Uno spazio sempre libero perché ai gestori della Sacra Bettola avevo salvato le piume in più occasioni nel passato. Fabio, grande amico e tastierista di fiducia in procinto di emigrare in Barhein, mi raggiunse con un profumatissimo Valdobbiadene dentro la glacette e flûtes offuscati. Sul palco, quasi a un palmo del naso, i musicisti stavano imbracciando le armi.
Fabio li conosceva tutti. Mi diceva – con modi da duro perché Fabio è un duro – che alle tastiere c’era Marco Zara, Ricci al contrabbasso, Bianchi alle chitarre, Salgariello alla batteria e alla tromba l’eccelso Fabrizio Bosso.

Io annuii, approvando la perfezione armonica del vino, e perdendomi per pochi secondi negli occhi della Charlize Theron locale che stava transitando sorridente davanti a noi.
Accidenti, non invecchiava mai, era sempre più bella e adoravo quelle occhiaie che si accentuavano a ogni movimento di labbra. L’unica donna che mi procurava borborigmi. Ma pure io ero un duro e dissimulavo nell’indifferenza una cotta che mi rodeva da trent’anni.

Per fortuna del mio colon le luci si abbassarono e un occhio di bue piazzato dalle parti del bancone illuminò Giorgia che stava guadagnando la scena. Bellissima, mora peperina, una che addenta la vita. Salutò il pubblico – con un’occhiata di riguardo a Fabio e a me – e presentò il gruppo. Poi la ragazza partì. Lungo touch di Salgariello e quindi arrapante  partenza ritmata, ben dialogata dal contrabbasso e dal piano, con Love for Sale. Mica bubbole, ragazzi, Cole Porter.

Il mio cervello, come sempre mi capita ai concerti magici, partì per i cavoli suoi, ben presto seguito dallo stanco muscolo cardiaco.
Mentre la ragazza presentava i 9 pezzi dell’ultimo album, io e Fabio prosciugammo due bottiglie. Dopo un’ora e mezza cominciarono i bis generosamente richiesti dal pubblico che ci attorniava. E Giorgia riattaccò proprio Stories Yet To Tell, da lei scritta assieme a Mario Zara. Fabio mi sussurrò: «Sentitela bene, uomo.»
Gesù, me la feci entrare nelle pieghe dell’anima. Incedeva lenta e solenne, un blues notturno sulle rive del fiume limaccioso.

My beautiful fly – in your mind again – Now foolish mistake – in your smile again

Il bicchiere mi tremò in mano.

Dreams to recall, inside – Clouds from the past into your eyes – I bless you a lullaby- angels fly – stories yet to tell – I guess more shining lights – by mi side – stories yet to tell

«Che ti succede?» Fabio stava dicendo qualcosa, ma io proprio non lo sentivo. Esistevano soltanto Giorgia e la canzone.

Tonight desert line – falling down – togheter you and i – in a perfect way – be vine so we’ll fly

Quando lei finì, io le chiesi di cantarla ancora. Play it again, Giorgia. Poi altri bis e il gruppo alla fine si ritirò. Tutti stanchi e felici. E Fabio ghignando mi chiese: «Ce la fai a tornare a casa?»
Non gli risposi. Mi alzai – lo confesso – con una certa fatica, incrociando ancora una volta gli occhi di Charlize. Talmente su di giri che, complici musica e Valdobbiadene, avrei potuto vuotare il sacco. Ma sono un duro. Uno dei miei pezzi jazz preferiti recita “Se fossi venuto al mondo sbronzo non avrei conosciuto il dolore.”

Uscii nel posteggio per prendere una boccata d’aria. Stava cominciando a piovere e alzai la faccia verso le stelle per non perdermi alcuna goccia. Dopo quella notte non ho consigli da dare a nessuno. Solo questo: trasforma un momento della tua vita in un noir, imprimendoti nell’anima la musica di Giorgia Barosso.
Ci sono ancora troppe storie da raccontare.