Il nuovo che avanza

Cavalchini Pierluigi 2di Pier Luigi Cavalchini
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Fa tenerezza vedere tanti maitres à penser impegnati nel cercare di capire l’”involuzione politica” , così viene chiamata, che sta caratterizzando la società italiana. E’, semplicemente,  il normale risultato  di una tendenza  in atto da almeno trent’anni e che può trovare una delle sue prime manifestazioni nella dura realtà dei “Quarantamila quadri Fiat” in marcia contro una “deriva intollerabile”. Le parole  virgolettate sono prese da uno dei titoloni della Stampa di fine 1980 e rappresentano  bene la fine di un’epoca, di un’utopia, di un desiderio collettivo (ma irrealizzabile).

Vi erano stati in allora – da poco – sessantuno licenziamenti Fiat ai limiti del regolamento e su quella vertenza si era aperto un durissimo scontro tra movimento operaio (e non solo) ed azienda (più Confindustria e non solo). Un “redde rationem” che portava a compimento un’azione di indebolimento che era partita con la strage di Piazza Fontana (siamo nel dicembre del 1969, appena dopo l’ “autunno caldo”) e che era continuata con la sapiente alternanza (secondo me eterodiretta) di azioni terroristiche di destra  e di una galassia indefinita che ha trovato nelle Brigate Rosse il suo più efficiente rappresentante.  In questo modo ci si è sbarazzati di milioni di cittadini (in gran parte giovani) che chiedevano un rinnovamento della politica, che volevano chiudere con le storie di corruzione alla “Antelope Cobbler”o alla maniera del fu “Banco Ambrosiano”. “Fu” anche pensando alla triste fine del banchiere Calvi sotto un ponte di Londra. Centinaia di migliaia di persone che facevano sentire in ogni occasione la loro presenza e la loro pressione, fiduciosi che “qualcuno” avrebbe sentito e capito. E gia’… come no…

Potrei continuare con le pressioni della mafia (o delle “mafie”, pensando a “ndrangheta”, “Nuova Corona Unita” e “Camorra”) sullo Stato di allora. Agli attentati di inizio anni Novanta a Firenze, a Roma e Milano. Agli stessi attentati mafiosi che distrussero le vite al giudice Falcone, a Paolo Borsellino, al giudice Livatino e… potrei andare avanti ancora per qualche riga con nomi altrettanto importanti e significativi.

Tutto questo perché non si voleva cambiar nulla, anzi, non si poteva cambiare. Era (ed è ) troppo difficile per una Nazione che anche centocinquant’anni dopo la sua unità non è unita  in nulla, che ha inventato la “Lega Nord”  per tagliare letteralmente in due l’Italia, abbandonandone una parte al suo destino. Una casta (per usare un “neologismo” prima leghista ora pentastellare)  che non solo usava tutti gli strumenti a disposizione per mantenere lo “statu quo ante” ma creava le premesse per la riscossa, cioè per riprendere quell’arricchimento a scapito delle classi più deboli (“deboli “ è il termine adatto, molto più calzante di un fumoso “meno abbienti”). Classi deboli, cioè gente, popolazione civile  che non ha capito e non capisce che i tempi sono cambiati, che avere un lavoro da statale è garanzia di fame – a lungo termine – e che non averlo proprio è garanzia a breve… ma poco cambia.  Classi deboli che hanno creduto che ci fosse ancora il socialismo e il comunismo dopo la caduta del muro di Berlino e, soprattutto, dopo la marcia indietro innestata da Gorbachov a inizio anni Novanta.

Certo, non ci sono più i Fanfani, i Moro (qualcuno ci ha pensato in modo spiccio, nel caso specifico), non ci sono più gli Andreotti e nemmeno i Craxi. Sono però loro ad aver vinto alla lunga, ad aver ottenuto quello per cui hanno lottato, fino alla morte (arrivando anche a concepire strumenti come l’associazione segreta paramilitare “Gladio” tanto cara all’ex Presidente della Repubblica Cossiga). Hanno cercato alleati, anche improponibili, ma li hanno trovati e se ne sono serviti. E i risultati si vedono oggi.

Guardando un’ultima volta all’indietro, non ha vinto Nenni e tanto meno Berlinguer. Come non hanno vinto D’Alema e Veltroni che, in tal modo, si trovano nella curiosa condizione di aver tanto “discusso” tra loro facendo – in realtà – ciò che altri avevano pianificato, riuscendo persino ad essere più bravi degli stessi maestri. Sull’ “affaire Fiat” non si è banfato più di tanto, favorendo l’eliminazione di realtà importantissime nell’industria italiana quali l’Alfa Romeo e la Lancia, come non si è detto e fatto nulla all’atto della nascita del polo Mediaset, con tutte le sue varie articolazioni.  Anzi con Silvio Berlusconi e la “Milano da bere” si è flirtato a lungo, basando molto dell’immagine Italia su abitudini, marchi, modi di vita che sono diventati sinonimo del “made in Italy”. Ma il “triangolo del lusso” fra San Babila, Via Montenapoleone e il Duomo di Milano è l’ Italia di oggi, è “trendy” e tutti ce lo invidiano. Come ci invidiano le Ferrari  le Lamborghini da far sfrecciare a Beverly Hills o a Doha. Ma anche il “parmigiano-reggiano-super” , il Chianti-docg., i “casali in Toscana” da tre milioni di dollari  ecc. ecc. (guarda caso tutti prodotti da “fascia di lusso”)… E come dimenticare un altro settore in forte attivo, quello delle armi da fuoco, delle mine, dei carri armati specializzati, dei mezzi anfibi e dei vari prodotti legati a Marina ed Aereonautica.  Tutti in attivo. Tutti legati ad un’immagine di Italia forte, sicura, ricca, sprezzante di poveri e sfigati (cioè della maggioranza degli stessi italiani, senza andare a cercare gli extracomunitari).

L’Italia, così, è diventata più moderna, al passo coi tempi e, soprattutto, perfettamente in linea con quanto richiedeva la Comunità Europea, o almeno chi comandava e – sostanzialmente – comanda ancora. Ovvero, l’Italia deve essere un Paese di serie B nell’Unione  e bisogna cercare di marginalizzarla il più possibile, portandone risorse e intelligenze oltre confine, svuotandone le caratteristiche peculiari, chiudendo fabbriche e attività in attivo che possono dare fastidio, mettendo – alle spicce – le cose a posto. Certo, rimangono delle produzioni particolari ma, essendo destinate ad un pubblico ristretto non “danno noia”. Sotto questo profilo fa ridere il fatto che “Lombardia e Veneto da sole sarebbero la quinta potenza europea per il PIL” (da “Il Sole 24 Ore” del 30 – XII – 2014, a commento di un libro sull’economia del Nord, appena uscito), una fatica inutile che va a premiare alcune famiglie ed alcuni distretti produttivi ma che, purtroppo, non cambia i dati in tavola.

E qui arriva Matteo Renzi. Punta alla semplificazione, anche istituzionale,Renzi Matteo 2 eliminando e/o cambiando il Senato (…vedremo). Dando più forza alle Regioni, si ha modo di credere, e chiudendo – di fatto – le Province. Vuole una legge elettorale  netta, con un secondo turno da prendere o lasciare. Con qualcosa di molto simile alle funzioni di Sindaco, così come si sono venute a determinare dopo la legge 142 del 1990 (…siamo sempre lì…). Presume, anzi “è sicuro”, di dare talmente tanta forza a questo nuovo Sindaco d’Italia da permettergli di cambiare ciò che mai nessuno è riuscito a modificare. E qui viene il bello… Cosa c’è da modificare in Italia per avere una Nazione moderna, efficiente, competitiva e con prospettive per i giovani? Soprattutto come farà Renzi a formarsi un’idea di ciò che effettivamente serve per far percepire e rendere effettivo un cambiamento? Si rivolgerà ai migliori esperti delle Università? Farà riferimento ai centri studi dei vari attori sul campo, da Confindustria, al Sindacato, alle stesse forze politiche presenti e non in Parlamento? Aprirà una stagione di “Cambiamento istituzionalizzato” con  tempi e modalità da definire? Penserà  anche ad una forma di verifica e revisione finale? Oppure farà finta di fare tutte queste cose e si appoggerà a chi già fa…(perdonate il refrain del “fare” … ma pare sia di moda…) I complimenti a Mario Draghi, letti da molti  in funzione antiLettiana, forse sono un primo indicatore di quello che succederà. Tutti con il vincitore … e il vincitore dietro a chi ha già vinto ed ha in mano tutto da tempo.  … Sarà così? O forse ha già in mente una “politica dei piccoli passi”? Può essere, … solo che i colpi a disposizione sono pochi e i nemici in agguato molti. E, come si dice, “Morto un Sindaco … se ne fa un altro”.