Girellando su internet mi sono soffermato qualche giorno fa su un sito (http://dizionari.zanichellipro.it/antiburocratese/ ) di straordinario interesse. Come già si sarà capito si tratta di un dizionario on-line che raccoglie i lemmi che fanno parte del linguaggio della burocrazia. Per la precisione il titolo della ricerca è: Dizionario del parlar chiaro. La cura il linguista Massimo Arcangeli per la Zanichelli editrice, e sul sito c’è un apposito box che invita i lettori a collaborare segnalando i termini astrusi od obsoleti che infiorettano le comunicazioni di chi sembra avere come scopo primario quello di complicarci la vita.
Un esempio, per altro non particolarmente grave ma comunque significativo, l’ho avuto guardando un servizio TV che si occupava della disastrata situazione di Pompei. A un certo punto la telecamera inquadra uno sportello all’entrata davanti al quale un visitatore un po’ perplesso chiedeva quali siti fossero effettivamente visitabili. L’impiegata estrae un elenco e dice: “Le casso quelli che sono chiusi”, prende la penna e incomincia a tracciare righe su righe. Dopo un attimo di perplessità il visitatore borbotta qualcosa e l’impiegata, in vero cortesemente, ripete: “le sto cassando i siti che non sono visitabili”.
Quale astruso procedimento mentale ha determinato l’uso di “casso” al posto del più comune, e comprensibile “cancello”?. Si tratta di un riflesso di autostima. Cassare, casso (da cui cassazione) è termine che significa esattamente “togliere segni scritti con un tratto di penna o raschiando” (dizionario Sabatini, Coletti) e ha quindi lo stesso identico significato del più comune “cancellare”. Ma, per estensione, è stato conservato nel linguaggio giuridico e viene ancora comunemente usato in atti ufficiali (Cassare una sentenza, cassare dall’albo ecc.). Viene quindi percepito come più prestigioso, dotato di maggiore correttezza e autorità. Usandolo l’impiegata segnalava, anche inconsapevolmente, di possedere una professionalità e di padroneggiarne il relativo linguaggio specialistico.
Piccola cosa, certo, ma indicativa della tendenza a utilizzare un gergo che denota l’appartenenza a una casta selezionata e contemporaneamente stabilisce una distanza ‘culturale’ dal profano. Si determina così come dice Arcangeli, “l’insostenibile pesantezza di un’informazione e una comunicazione istituzionale, supeflue, pigre, autoreferenziali”.
Ma se è caratteristica diffusa trarre sicurezza dall’appartenere a un cerchia iniziatica, per il burocratese bisognerà segnalare in più la snobbistica volontà di rendere palese il fatto di essere seduti dall’altra parte del tavolo, quella dell’autorità, dello Stato, mentre dall’altra ci siamo noi, i sudditi.
Per chi vuole divertisi un poco, si fa per dire, unisco qualche termine del burocratese raccolto dal Dizionario del parlar chiaro, con le relative definizioni in linguaggio comune.
Attergato: scritto sul retro o retroscritto.
Badantato: l’assistenza agli anziani cui si dedicano le badanti.
Biffare/Biffatura: barrare, sbarrare, contrassegnare, (apposizione di una) crocetta.
Cerziorare: avvertire, informare (in dettaglio).
Elasso: trascorso, passato o scaduto.
Endoprocedimento: procedimento parziale (o interno).
Espresso in narrativa: (già) detto, (già) esposto, (già) affermato, (già) indicato.
Inconferente: irrilevante, non pertinente.
Murino: di topi (o di ratti) o dei topi (o dei ratti).
Obliterare: timbrare, convalidare.
Sgambatoio/Sgambamento (area di): area per cani (o riservata ai cani)
Soggetto passivo: interessato, diretto interessato o destinatario
Ultroneo: 1) extra; 2) superfluo, non pertinente.
Sembra di vivere in un altro mondo, non è vero? Anche perché se insieme con il burocratese mettiamo il politicamente corretto, il politichese, il sindacalese, l’aziendalese e lo scolastichese si ha proprio l’impressione di vivere tra tribù l’un contro l’altra armate. E forse è proprio così.