L’uguaglianza perduta – Il fallimento della scuola di massa

La scuola che vorreiVenerdì 18 ottobre, presso la libreria Mondadori di via Trotti, Paride Marseglia presenterà il libro di Adolfo Scotto Di Luzio, La scuola che vorrei.

Commentando la recente indagine promossa dell’Ocse, che ha giudicato i nostri giovani neppure in grado di raggiungere i livelli minimi nelle capacità linguistiche ed espressive, il ministro Giovannini, ha dichiarato che “gli italiani sono poco occupabili (sic.), perché molti di loro non hanno le conoscenze minime per vivere nel mondo in cui viviamo e non costituiscono capitale umano su cui investire per il futuro”. Se poi ripensiamo alle recenti esternazione del ministro Carrozza che vorrebbe una scuola più aperta al lavoro e avviata a superare il modello ‘liceale’, si ha il quadro del fallimento di un settore che non è riuscito a gestire il passaggio da scuola d’élite e scuola di massa e che, senza una seria riflessione, rischia di andare incontro al disastro più totale accodandosi ciecamente ai dettami di un ‘pensiero unico’ costruttivista che si pone come obiettivo quello di formare ‘le teste’ e considera la trasmissione di una cultura condivisa una fastidiosa incombenza da ridurre ai minimi termini.

In effetti negli ultimi trent’anni la scuola italiana, massacrata da ‘riforme’ a ripetizione, ha completamente rinunciato a istruire, e cioè fornire ai discenti un insieme di informazioni di carattere storico culturale che permettano loro di orientarsi nel mondo in cui si troveranno a vivere la loro vita da adulti. Correre dietro al quotidiano alla ricerca di competenze specifiche, come ora si sta facendo, anche nel migliore dei casi porterà a individualità magari specializzate ma assolutamente prive di conoscenza, di ‘sapere’. E, attenzione, mentre a livello mondiale si va sempre più imponendo un modello relativistico “politicamente corretto che non si presenta con un manifesto esplicito ma avanza per via ministerial-burocratica”, come afferma Giorgio Israel, le élite stanno progressimamente abbandonando la scuola pubblica, col risultato ai approfondire ancor più il solco che la democratica scuola di massa si era proposta di colmare. “I ricchi – afferma persuasivamente Scotto di Luzio nel libro che stiamo presentando – si separano dalla scuola di tutti, che diventa così un servizio con basso livello di attese per la moltitudine”

Sarà il caso dunque di prestare la massima attenzione a questo recente saggio che l’autore, Adolfo Scotto Di Luzio, ha dato alle stampe per i tipi di Bruno Mondadori (La scuola che vorrei, pp.122, E.15,00). Vi viene affrontato il complesso tema della scuola pubblica italiana ripercorrendone il cammino dal dopoguerra a oggi con lucidità storica e passione intellettuale. Non a caso il volumetto è stato oggetto di una lusinghiera recensione da parte di Ernesto Galli della Loggia apparsa sul Corriere della Sera, nella quale si sottolinea appunto come la scuola di massa abbia tradito la scuola di cultura e che in realtà era proprio il retaggio umanistico, contro il quale si è combattuta una lunga guerra nel nome di una malintesa ‘democratizzazione’, a creare le basi per l’uguaglianza.

L’autore individua, negli anni in cui si faceva strada la società dei consumi, la contraddizione che si annida nelle origini stesse della scuola democratica la quale, afferma, “contiene in realtà due ipotesi divergenti”, da una parte la storia comune e dall’altra la “metodologia della cooperazione educativa”. La prima destinata a soccombere e la seconda a chiudersi nell’arido recinto dell’autoreferenzialità. In vero la nostra scuola, sempre più orientata verso un atteggiamento up to date, non fa altro che recepire nel proprio corpo la “delegittimazione dell’insieme dei principi di giustizia” che, almeno a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, ha portato alla “normalizzazione dei costumi sulla base delle scienze sociali”. Mentre sempre più sbiadivano le norme collettive, è prevalsa “una sorta di contrattualizzazione del quotidiano; o meglio, la sua devoluzione a delle mere pratiche di gestione, la sistemazione alla meno peggio dei rapporti tra le persone garantita dall’expertise di qualche specialista”, un percorso che la disoccupazione endemica ha ulteriormente rafforzato con la risultante di una più aspra, anche se meno percepita, ablazione dei principi di uguaglianza a vantaggio delle dispàri condizioni di partenza. “Nelle forme di una calorosa sollecitudine per la persona, la scuola della società senza lavoro organizza la nuova disuguaglianza sulla base di una distinzione sempre più netta tra il massimo della concentrazione della qualità dell’istruzione, e dunque del lavoro richiesto, in una cerchia ristretta di individui altamente motivati e un circuito scolastico a bassa intensità di di contenuti culturali e di impegno individuale destinato a una massa di percettori di quello che possiamo definire una sorta di reddito minimo garantito applicato all’istruzione”.

Si tratta della drammatica radiografia di una situazione che rende anche ragione di una realtà che altrimenti si fatica a capire, quella di milioni di giovani sfiduciati che ormai neppure cercano lavoro, ma si limitano a sopravvivere, isolati nella paralisi nichilistica di chi non possiede gli strumenti culturali per interpretare il mondo, prigionieri del rifiuto sdegnato (o ‘indignato’) di un presente che li rifiuta e di un passato che ignorano, guardando sgomenti verso i fantasmi di un plumbeo futuro.

Quello di Scotto di Luzio è quindi un libro al di fuori della cultura mainstream, un libro che invita a pensare, a discutere e lo fa comunicando un senso di urgenza che non è l’ultimo pregio del suo lavoro. Se proprio dobbiamo trovare qualcosa da criticare potremmo dire che queste sue 122 pagine appaiono a volte fin troppo dense di intuizioni e spunti che meriterebbero di essere più ampiamente sviluppate. Ce lo auguriamo e concludiamo, nell’attesa, con le parole con le quali l’autore delinea il suo programma:

“Prodotto di un lavoro critico di discriminazione, la cultura è essa stessa la base di esercizio della facoltà individuale di chiarificare e distinguere i significati, perché comporta il riconoscimento di un canone e di ciò che lo sfida ai suoi margini e continuamente lo rimette in discussione, sollecitando una ininterrotta opera di giustificazione razionale dei valori. Alla scuola, dunque, il canone: alla vita di fuori, tutto quello che ne tenta le strutture portanti. E’ questa la mia proposta”.

Sarà un lavoro immane, ma qualcuno doveva pur cominciare.

Paolo Zoccola