Italia di ieri, Italia di oggi

Michele Brambilla sulla Stampa di ieri (4 ottobre) in un articolo dedicato alla visita del premier Letta a Longarone, in occasione del 50esimo anniversario della strage del Vajont, ha scritto le seguenti parole: “Si sono ricordate miserie, viltà di un tempo in cui ai potenti del popolo non importava nulla”, e ancora “Un tempo in cui i potenti erano ancora più potenti e la povera gente ancora più povera gente”.

Queste parole mi hanno colpito ma soprattutto indotto a pormi un interrogativo, che qui vi propongo: queste affermazioni rappresentano una verità dimostrabile con fatti, dati, accadimenti? È una incontrovertibile realtà oppure una “suggestione” suscettibile di essere messa in discussione, falsificata, smontata ed esposta al rischio di cadere in contraddizione? Mi spiego meglio: viviamo in una stagione, apertasi evidentemente qualche anno fa, in cui non si fa che dire che tra la società e la politica, tra il popolo e le istituzioni, tra i cittadini semplici e i “potenti” esiste un divario, uno scollamento, un’incomunicabilità profonda, una frattura irreparabile e aggiungiamo anche una malcelata mancanza di rispetto dei secondi nei confronti dei primi.

Si parla di soprusi, di ingiustizia, di lontananza sempre maggiore dai problemi della gente, si grida allo smantellamento del principio di uguaglianza formale e sostanziale (o quantomeno alla sua non applicazione sul piano pratico); si denunciano posizioni soggettive calpestate, diritti negati, mancanza di rappresentatività. Il repertorio è dei più variegati ed è ricco soprattutto perché c’è molto di vero in questa galleria della protesta. Sono allarmi e preoccupazioni motivati, che ciascuno di noi cittadini impegnati, attenti o anche solo opportunisticamente interessati non può non sentire o cogliere. Siamo in piena crisi: i nostri valori sono deteriorati, il nostro modello di relazioni è saltato e finora nessuno è riuscito a proporne uno valido in sostituzione.

Quello che mi chiedo, alla luce di tutto questo, è se allora non siamo troppo affrettati o spinti dall’emozione quando analizziamo i momenti della nostra Vita. Noi giovani abbiamo poca esperienza e i fatti di 40-50 anni fa li conosciamo attraverso mezzi vari (tra parentesi, non certo i libri di scuola del liceo dove se ne parla limitatamente o comunque i professori non fanno in tempo a trattare gli argomenti, si preferisce studiare Numa Pompilio o la congiura dei Pazzi mentre di Vajont o De Gasperi non sappiamo un accidente), mezzi vari come Internet, giornali, libri o i racconti di chi c’era. I nostri nonni ci possono spiegare come si viveva nell’Italia del dopoguerra, solo loro ci possono raccontare la miseria, le speranze, i sacrifici, le conquiste, i valori.

Ma trovo antipatico il tentativo di contrapporre i tempi presenti (l’adagio “mala tempora currunt” va sempre bene) che sono disordinati, depressi e nervosi con i bei tempi andati in cui le cose sì che filavano bene. Lo trovo inadeguato per la facile semplificazione: fa comodo per lagnarsi del cattivo stato delle cose attuali.

Luogo comune che peraltro cozza proprio con l’affermazione sua opposta, peraltro altrettanto presente, che descrive un’Italia anni 50-60 dove i più deboli erano eternamente sconfitti, dove si aveva poco riguardo della tutela della popolazione e dei territori, dove l’economia scaricava il suo peso sociale sulle spalle di tanti poveracci, protagonisti di questo “ciclo dei vinti”.

Allora a quale delle due dobbiamo credere? Cosa volete insegnare, ai giovani, dell’Italia che è arrivata ai massimi contesti mondiali? Chi può mostrare la cifra esatta del prezzo umano pagato dagli Italiani, perché da questa penisola fosse sfruttato il suo oro?

Leggo con fastidio queste mezze valutazioni storiche che paiono approssimate e volte a “secondare” l’emozione del fatto che si vuole raccontare, quando invece il giudizio si costruisce facendo molta comparazione: allora devo concludere che l’Italia in 50 anni di storia non ha compiuto passi in avanti? Che siamo rimasti al “potente” contro il cittadino comune, inascoltato e soggiogato dall’”artiglio” della classe dirigente avida, ingorda, corrotta? Perché, seppur esagerando, è questa l’Italia che dipingono i giornali, e che l’uomo della strada (noi tutti lettori, elettori, osservatori) volentieri raffigura nelle conversazioni. È l’Italia, se permettete, che tanti giovani coscienziosi e ottimisti cercano di combattere.

Però vorrei che su questa materia si facesse un po’ di chiarezza: negli anni del boom, della motorizzazione, della crescita, la dignità dei cittadini italiani era piena, rispettata, sacra come i valori dell’epoca oppure oggi c’è il rispetto per i territori che non c’era allora? Sono tempi da rimpiangere o tempi che con sollievo consegniamo alla Storia? Io propendo per la seconda, ma sono in tanti a non crederci, a dire “si stava meglio quando si stava peggio”, espressione riassuntiva di un certo modo di vedere la Vita di un popolo. Almeno sui mezzi di comunicazione e opinione, questo tema andrebbe affrontato, una volta per tutte.

Stefano Barbero – Fubine (AL)