La pelle riflettente [Il Superstite 153]

arona-2di Danilo Arona

Ce l’avete un film del cuore? Io un sacco. Uno di quelli che proprio non se ne vanno, soprattutto dalla mente, risale al 1990. E lo firmava un certo (allora) Philip Ridley. A quel tempo pensato solo come regista cinematografico, una sorta di enfant prodige di appena ventisei anni, l’uomo inaugurava solennemente il decennio con un’opera disturbante e visceralmente gotica dal titolo accattivante e misterioso, The Reflecting Skin, tradotto in modo infedele ma calzante, come Riflessi sulla pelle. Pochi sfuggirono al fascino di quel grandioso metatesto ambientato nella solare quanto spettrale campagna dell’Idaho ai confini del Canada. Presumo che la sua intatta bellezza consista ancora nella sua indefinibilità, sospesa tra l’horror, la fiaba (nera) e il gotico puritano: un’atmosfera fiabesca e allucinata in cui  Ridley ambientava il rito d’iniziazione alla vita del giovanissimo Seth,  futuro “sacerdote al nero” che faceva esplodere rane, perseguitava una falsa vampira e parlava con i feti, mentre il mondo attorno gli propinava strani delitti, insostenibili suicidi con il supplemento graficamente straordinario di una misteriosa auto nera che si aggirava per i campi di mais alla ricerca di piccole vittime.

In cotanto contenitore di ossessioni (generazionali e non, dal fungo atomico che “argenta la pelle” all’omofobia senza tempo), si sprecavano i riferimenti: un po’ Stephen King, molto David Lynch, persino la Flannery O’Connor di Wise Blood, portato sullo schermo con splendidi risultati da John Huston (La saggezza del sangue del ’79).
Ma tanto “american gothic” proveniva da un autore giovanissimo nato nell’East End di Londra e che fino a quel momento al cinema aveva regalato solo due corti, Visiting Mr. Beak e The Universe of Dermot Finn e la sceneggiatura di The Krays, ottimo e misconosciuto biopic noir di Peter Medak (I corvi, sempre del ’90, ma il titolo italico che traduce alla lettera il cognome di due fratelli banditi degli anni Sessanta è un delirio…). Bisognava quindi scendere sul pianeta Ridley con tutti gli strumenti del caso.

Da allora Ridley si è manifestato in ogni tassello della narrazione. In letteratura, a teatro, neiSkin fumetti, nella fotografia d’avanguardia, nella poesia, nella pittura e ancora nel cinema. Dispersione? No. Ridley è un artista a tutto tondo, fisiologicamente “contro”, gay come tanti dei suoi personaggi, gotico nel profondo nonché diabolico nocchiero di quel territorio, perennenente borderline, chiamato “fiaba nera”.
Ridley abita qui. Dove ha vissuto e prodotto Roald Dahl e dove vive tuttora Neil Gaiman. Ma non intendiamo qui definire la fiaba nera anche perché rischieremmo di scantonar rovinosamente: diciamo solo che, per quel che riguarda Ridley, i rimandi ci stanno – in Inghilterra c’è chi lo considera l’erede di Dahl sul fronte dei libri per ragazzi -, ma dai medesimi non bisogna farsi fuorviare. Quei déjà vu – Lynch, Tim Burton, Terry Gilliam, certo Neil Jordan e persino il Richard Kelly di Donnie Darko – è legittimo provarli, a patto di non dimenticarsi che stiamo guardando e maneggiando un prisma ologrammatico con lati e sguardi-maschere diversi a seconda del punto di osservazione, ma organico e coerente al suo interno in quanto a poetica.

Nel secondo film di Ridley, datato 1995, The Passion of Darkly Noon, un giovane uomo dal nome e cognome che sono un vero programma (quelli del titolo) è ritrovato svenuto in un bosco e ospitato nella capanna, nel fitto della vegetazione, della bella e disinibita Callie: lui, figlio di integralisti cristiani con un senso fisico del peccato troppo spiccato e pressoché “biblico”, e lei, sensuale e selvatica come una vera “strega” d’altri tempi. L’incontro è fatale, destinato a un cruentissimo finale per nulla catartico, e non sbaglia chi ha letto nel personaggio di Darkly Noon l’evoluzione quasi naturale e simmetrica del piccolo Seth del primo film, un “sacerdote al nero” così ridotto dalle fobie sovrastrutturali del mondo al di là dei boschi, quasi un’inconsapevole anticipazione di The Village di Shyamalan. Per quanto poco visto, The Passion of Darkly Noon è stato uno dei film più “intitolati” in Italia (Il giorno del castigo al cinema, Passeggiata nel buio in un passaggio su RAI2 e Sinistre ossessioni in DVD), giusto per confermare che, quando si maneggia Ridley,  possono saltare i riferimenti e i tentativi di definizione. Di certo l’artista inglese guarda ancora al cuore nero e gotico dell’America, un paesaggio della mente post-New England, a metà strada tra Hawthorne e Steinbeck.

Per il terzo film, Heartless, sulla carta un horror dichiarato (ma con Ridley gli steccati non hanno proprio senso), il nostro ha rinunciato ai suggestivi set americani per ambientare la storia nello spazio natale che da sempre caratterizza i suoi racconti per l’infanzia, l’East End londinese: qui il giovane Jamie, un ragazzo “fuori posto” come tanti altri di Ridley, si convince che la madre non è stata assassinata, come potrebbe sembrare, da una gang di giovani delinquenti, ma da un’orda di demoni che infesta tutta Londra.  Violenza urbana, possessione, solitudine, nevrosi e intolleranza: a Ridley servono al solito per parlare d’altro.
Scoprite Philip Ridley se ancora vi manca. Mi ringrazierete.