La menzogna e l’addio alle fabbriche

Soro Bruno 2di Bruno Soro
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“Secondo me, il vero nemico della fiducia è la menzogna.”
Onora O’Neil, preside del Newman College di Cambridge, citato in “L’ombra del potere”, di David Lane, Editori Laterza, Roma-Bari, 2005.

Con tre interessanti servizi il professor Enrico Moretti, economista dell’Università della California a Berkeley e autore del libro “La nuova geografia del lavoro” (recentemente tradotto in italiano dalla Mondadori), ha iniziato la sua collaborazione al quotidiano La Stampa. Il tema dominante che accomuna i tre servizi, dedicati rispettivamente alle città hi-tech statunitensi che creano lavoro (domenica 28 luglio), l’addio alle fabbriche in America ed in Europa (lunedì 5 agosto) e alle condizioni affinché l’Italia possa tornare a crescere (lunedì 12 agosto), riguarda i cambiamenti intervenuti nella “cartina economica del mondo”.

Il primo servizio sulle città hi-tech che creano lavoro è corredato da una carta geografica degli Stati Uniti nella quale sono evidenziate le dieci città rispettivamente con la maggiore e con la minore percentuale di lavoratori laureati. Oltre alla percentuale dei lavoratori laureati, per ciascuna di esse viene riportata anche la forbice tra gli stipendi annui dei lavoratori laureati e di quelli diplomati. Da quei dati emerge in maniera evidente che laddove la percentuale dei laureati è più elevata, gli stipendi annui, sia dei laureati che dei diplomati, sono più alti. Conseguentemente, sostiene Moretti, “l’istruzione e l’innovazione fanno la differenza”.  Noi siamo abituati, egli scrive, “a pensare all’America come ad un Paese unico. In realtà oggi esistono tre Americhe, molto distinte l’una dall’altra”. Nella prima figurano “città con una solida base di capitale umano fondata su creatività e ricerca”, nelle quali vi è “un numero sempre crescente di imprese di successo e di posti di lavoro con salari elevati”. Nella seconda si collocano invece “le città dove un tempo dominava l’industria tradizionale, ridotte a centri in rapido declino che continuano a perdere lavoro e abitanti”. Nella terza, infine, si trovano le città che stanno in mezzo a questi due estremi e la cui economia potrebbe “evolversi in una direzione o involvere nell’altra”. Negli anni ’50 e ’60, il successo economico di una città o di una regione, sottolinea l’autore, dipendeva dalla presenza in essa dei settori manifatturieri più dinamici e tutto ciò “si traduceva in occupazione fiorente e salari tra i più alti sulla faccia della terra. (…) Negli ultimi cinquant’anni, tutto questo è cambiato. Gli Stati Uniti sono passati da una economia fondata sulla produzione di beni materiali a un’economia basata su innovazione e conoscenza”. In questo nuovo contesto l’ingrediente chiave del successo “non sono più i macchinari ed infrastrutture fisiche – scrive Moretti –, bensì le persone”, e ciò che più conta “l’ecosistema produttivo”. Infatti, se lo stabilimento di una produzione tradizionale ad alta intensità di manodopera può essere delocalizzato in un paese in via di sviluppo, “un laboratorio biotecnologico o elettronico è piuttosto difficile da trasferire altrove, perché non si tratta di trasferire solo un’azienda, ma un intero ecosistema”.

Il tema dominante del secondo servizio è l’addio alle fabbriche. In esso vengono messi in evidenza i cambiamenti intervenuti a livello mondiale nell’utilizzazione del lavoro all’interno del settore manifatturiero a seguito dell’azione di due distinte forze: quella dovuta al progresso tecnologico e quella imputabile alla globalizzazione. In seguito a tali cambiamenti la cittadina cinese di Shenzhen è diventata in pochi anni “una delle capitali dell’industria manifatturiera del pianeta”. Per illustrare cosa è accaduto nella geografia del lavoro l’economista  dell’Università di Berkeley porta ad esempio due prodotti comunemente ritenuti icone della globalizzazione: l’iPhone e l’Ipad. Concepiti e progettati dagli ingegneri della Apple a Cupertino in California, le componenti elettroniche di questi due prodotti sono fabbricati “in gran parte a Singapore e Taiwan”, mentre l’ultima fase della produzione, quella a più elevata intensità di manodopera viene effettuata nella cittadina di Shenzhen, dove “gli operai assemblano a mano le centinaia di componenti che costituiscono il telefono e lo predispongono per la distribuzione”. La sola fase del processo produttivo rimasta e realizzata negli Stati Uniti è quella più innovativa del design. Ma tutto ciò non è che un esempio: “una porzione consistente dell’industria manifatturiera americana”, infatti, si è trasferita nelle fabbriche cinesi “che producono una parte sempre crescente dei beni d consumo dei paesi ricchi”. Così, “mentre Detroit e Cleveland perdevano posti di lavoro e si avviavano al declino, Shenzhen prendeva quota”. In seguito all’introduzione nel processo produttivo di macchinari sempre più sofisticati, la prima delle forze alle quali si deve il cambiamento, le fabbriche dei paesi occidentali “sono molto più efficienti che in passato e per produrre la stessa quantità di beni impiegano sempre meno manodopera”. In queste economie gli operai dell’industria guadagnano di più, ma sono anche sempre di meno. E qui entra in gioco la seconda forza: per effetto della globalizzazione le produzioni più tradizionali, quelle che non richiedono un ambiente particolarmente innovativo, vengono trasferite nei paesi in cui la manodopera costa di meno. Nel caso dell’industria tessile, ad esempio, i “brand americani ed europei godono di buona salute, ma solo una manciata di posti di lavoro – nel design, nel marketing e nella distribuzione – sono rimasti negli Stati Uniti e in Europa”. In pochissimi anni il fenomeno della delocalizzazione si è diffuso anche ad altre produzioni, come ad esempio nella fabbricazione dei computer, dove l’hardware è ormai diventata “un’industria matura, quasi quanto il tessile”. Allo stesso tempo, se l’azione di queste due forze ha decimato l’occupazione manifatturiera di tutte le economie occidentali, esse hanno avuto come conseguenza una forte espansione dei posti di lavoro nel campo dell’innovazione. Oltre al manifatturiero avanzato, come la progettazione degli iPhone o degli iPad, l’innovazione riguarda anche numerosi altri campi, quali “il  software e servizi internet, le biotecnologie, l’hi-tech del settore medico, la robotica, la scienza dei nuovi materiali, e le nanotecnologie”, ma anche tutte quelle attività, “nel settore dell’intrattenimento, in quello dell’ambiente e persino nella finanza e nel marketing”, in grado di creare nuovi prodotti non facilmente replicabili. In sintesi, “nei prossimi decenni – conclude Moretti –, la competizione globale sarà incentrata sulla capacità di attrarre capitale umano e imprese innovative”.

Nell’ultimo dei tre servizi vengono analizzati i problemi dell’economia italiana alla luce dei cambiamenti in atto nella geografia del lavoro. L’analisi parte dall’ipotesi “che i problemi economici italiani sono strutturali e stanno decimando le capacità economiche del paese da decenni”. Coloro che nei giorni scorsi hanno enfatizzato l’esistenza di alcuni segnali di “ripresa” dell’economia italiana fingono di ignorare che il nostro paese, come peraltro vado sostenendo da tempo, è interessato da alcuni decenni da una situazione di declino economico. Una situazione, peraltro, comune a tutte le economie occidentali anche a prescindere dalla crisi economica in atto da un quinquennio, ma che, a differenza degli altri paesi, dagli inizi del nuovo secolo ha subito una significativa accelerazione. In sintesi, la tesi del professor Moretti è la seguente. Dal momento che “viviamo in un’economia globale in cui le città, regioni e nazioni con economie più forti si vanno rafforzando, mentre le città, regioni e nazioni con economie più deboli vanno indebolendosi”, la nostra economia soffrirebbe di due distinti fattori di debolezza: il “nanismo delle imprese italiane e la loro scarsa propensione all’innovazione” e il fatto che l’Italia occupi “una posizione sempre più periferica in gran parte dei settori nuovi, sia dal punto di vista culturale, che istituzionale che logistico”.
L’analisi del professor Moretti coglie indubbiamente taluni aspetti sui quali, nell’ottica della “nuova geografia del lavoro” è difficile non concordare, come l’inevitabilità dei cambiamenti indotti dal progresso tecnologico e dalla globalizzazione. Sperare, come qualcuno fa, nel ritorno ad un passato industriale che non esiste più, fatto di grandi fabbriche che producono beni intermedi come la siderurgia, la chimica di base o l’edilizia tradizionale, è illusorio, così come è illusorio attendersi miracoli da una peraltro auspicabile congiuntura favorevole. Infatti, come giustamente sottolinea Moretti, ciò che conta, non sono gli andamenti congiunturali, bensì “le tendenze di lungo periodo”, le sole dalle quali dipende l’evoluzione del nostro tenore di vita.

Condividendo gran parte delle argomentazioni dell’economista americano, e non avendo ancora avuto l’opportunità di leggere il libro, mi limiterò unicamente ad avanzare qualche riserva sul suo metodo di analisi che andrebbe opportunamente contestualizzato. Così, ad esempio, il confronto tra le prime dieci città con la maggiore e con la minore percentuale di lavoratori laureati, nel quale figurano grandi agglomerati urbani e piccole cittadine di provincia, suscita qualche perplessità, specialmente se esteso al di fuori dal contesto americano. La constatazione dell’esistenza delle “tre Americhe”, poi,  richiama alla mente la tesi di qualche anno fa del sociologo Arnaldo Bagnasco sulle “tre Italie”, una tesi che negli anni più recenti è stata rivista dagli studi più recenti sull’evoluzione dell’economia regionale italiana. Il contesto italiano, dominato da piccole cittadine di provincia, non è confrontabile, se non a livello territoriale più ampio, con quello degli agglomerati urbani statunitensi: in esso coesistono situazioni di declino e di trasformazione con realtà economiche più dinamiche nelle quali spiccano tutti quei settori altamente innovativi che il professor Moretti ha richiamato nel suo secondo servizio. Questo non significa che una ripresa economica consistente non necessiti di una riqualificazione del tessuto produttivo in favore di quelle attività che fanno uso di minori quantità di capitale reale (ovvero impianti e macchinari), di imprese dotate di una spiccata propensione all’innovazione tecnologica orientata all’ottenimento di nuovi prodotti ed una forza lavoro più qualificata (vale a dire dotata di maggiore «capitale umano»). Ma tutti questi fattori attengono a quella forza che un altro grande economista americano Moses Abramovitz (1912-2000) ha etichettato come il «potenziale di crescita» di un’area: una forza che rappresenta una condizione necessaria, ancorché non sufficiente, a garantire una crescita duratura. Affinché ciò accada occorre che questa forza non venga sopraffatta dalla direzione e dall’intensità di una seconda forza, quella che costituisce la «capacità sociale di realizzare il potenziale» di cui quel determinato territorio dispone. Da questo punto di vista, penso che assai difficilmente mi si potrà contestare che la «capacità di realizzare il potenziale», che riflette il cosiddetto «capitale sociale», ossia tutti quei fattori sociali, culturali e istituzionali che influiscono sullo stato della fiducia dei cittadini nelle istituzioni e nelle relazioni interpersonali, che il professor Moretti non considera, abbia subito nell’ultimo ventennio nel nostro paese una sistematica distruzione.
Nel trattare la questione della fiducia, in un brano tratto dal libro citato nell’epigramma, la professoressa O’Neil ci rammenta come “l’inganno sia all’origine di molti reati gravi, quali la truffa, la falsa testimonianza, il falso in bilancio, la calunnia e la diffamazione”. Honi soit qui mal y pense.