Il Presidente del Consiglio Mario Monti si è molto adirato per le critiche, tutto sommato modeste, del neopresidente di Confindustria Giorgio Squinzi all’operato del suo governo e lo ha addirittura accusato di favorire l’aumento dello spread. Come mai questa reazione decisamente sopra le righe del premier? In fondo Squinzi si è limitato ad auspicare che il recente decreto governativo sulla spending review non determini una “macelleria sociale” in una fase di crisi fortemente segnata dall’aumento della disoccupazione e dalla contrazione dei redditi delle famiglie.
Vero è che il nuovo capo di Confindustria nei giorni scorsi non era stato tenero nei confronti della riforma del mercato del lavoro della Ministra Fornero, definita “una vera boiata”, un giudizio però non molto dissimile da quello espresso a fine marzo dall’allora presidente Marcegaglia che, intervistata dalla stampa internazionale, l’aveva definita “pessima”.
Forse ad irritare Monti è stato il contesto nel quale il leader di Confindustria ha manifestato i suoi giudizi: in casa del sindacato e a confronto con la Segretaria della Cgil Susanna Camusso. Ed il fatto che entrambi gli interlocutori si siano trovati d’accordo nel giudicare sbagliata la strategia di uscita dalla crisi sin qui perseguita dal governo e basata solo sul rigore e non sugli investimenti, soprattutto in innovazione e ricerca, essenziali – sia per il Sindacato che la Confindustria – per far ripartire lo sviluppo.
Una posizione che il nuovo presidente francese Hollande condivide e da tempo ha fatto propria. “L’austerità da sola – ha dichiarato – non è risolutiva, così come accumulare misure di sola austerità non fa ripartire l’economia e l’esempio dell’Italia e lì a dimostrarlo: Monti ha ridotto il numero dei dipendenti pubblici, ha elevato l’età pensionabile, eppure i tassi di interesse sono sempre al 6/7 per cento” L’austerità infatti – come sostiene anche Antonio Lettieri – è un cane che si morde la coda. I mercati chiedono misure restrittive per calmare il loro appetito speculativo ma, di fronte alla recessione che si aggrava, l’appetito ricompare più vorace di prima. E Paul Krugman, riferendosi alle politiche europee, di cui il governo Monti è uno dei più fedeli e apprezzati esecutori, non ha esitato a definire una “follia” l’ostinazione della politica europea, guidata dall’asse Berlino-Francoforte-Bruxelles.
E’ quindi probabile che a rendere nervoso il nostro presidente del Consiglio, più che il voto di scarsa sufficienza che Squinzi ha assegnato al governo, sia la priorità che il capo di Confindustria sembra dare, almeno nelle sue prime prese di posizione, alla produzione industriale e all’economia reale, più che affidarsi alle capacità salvifiche della finanza. Interessato a ridurre la pressione fiscale sul lavoro e i salari e ad aumentarla nei confronti delle rendite, sino a rendere possibile una patrimoniale non sulle aziende, ma sulle grandi ricchezze private. Un atteggiamento che, accompagnato da una visione non pregiudizialmente conflittuale nei confronti del sindacato e dichiaratamente distante da quella teorizzata e praticata da Marchionne, poco si concilia con la filosofia neoliberista che va per la maggiore nell’attuale Unione Europea e che Monti, nella sostanza, condivide.
Una filosofia che si propone il ridimensionamento dello stato sociale e la deregolamentazione del mercato del lavoro. La libertà di licenziare, con la messa in discussione simbolica dell’articolo 18 e l’attacco alla contrattazione nazionale, rientra nei presupposti di questa strategia. E se là dove, come nella Spagna del capo del governo conservatore Mariano Rajoy, questa pratica è stata applicata con solerzia attraverso la doppia libertà di licenziare e di ridurre i salari nella contrattazione aziendale, ma non ha portato ad alcun miglioramento della crisi, invece di prenderne atto si persevera nell’errore di riproporre l’accoppiata: “austerità-riforme di struttura”. Che applicata da noi ha riguardato, prima, le pensioni con l’innalzamento illogico, per un paese che non crea lavoro, dell’età della pensione e il dramma degli “esodati” e, poi, la disciplina del mercato del lavoro, al posto di una politica di investimenti finalizzata alla nuova occupazione, in particolare, dei giovani.
Per ottenere questi risultati il sindacato, la sua forza, la sua unità e presenza nei luoghi di lavoro è da tempo considerato il principale ostacolo da abbattere. Attraverso una “lotta di classe” – per dirla con Luciano Gallino – che si è esercitata e prosegue dall’alto verso il basso, dai governi conservatori sostenuti e indirizzati dal capitalismo finanziario per indebolirne potere e rappresentatività. Una lotta iniziata sin dagli anni ’80 che ha avuto in Margaret Thatcher prima e, in seguito, nel presidente americano Ronald Reagan i rappresentanti più noti ed impegnati nel distruggere i diritti e le conquiste dei lavoratori, privatizzare e ridurre al minimo le prestazioni dello stato sociale, ma che ha trovato anche nel nostro paese entusiasti estimatori. E non sempre e solo nel centro destra.
Da questo punto di vista Marchionne non sta inventando nulla, ma punta a importare in Italia il modello di relazioni industriali americano che prevede che il sindacato stia preferibilmente fuori dai luoghi di lavoro e, se presente, si sottoponga alle richieste e ai voleri dell’azienda. Così a Pomigliano quei lavoratori che con la loro adesione alla Fiom hanno osato sfidare l’azienda devono essere messi fuori dalla fabbrica e se un giudice fa valere la legge contro una palese discriminazione la medesima diventa il segno di un “italico folclore”.
Ma, dal suo canto, la stessa Ministra del lavoro Elsa Fornero quando sostiene che “il lavoro non è un diritto” e non eccepisce nulla nei confronti delle posizioni sostenute e messe in atto dall’amministratore delegato della Fiat, nella sostanza rivela anch’essa la propensione a considerare la disoccupazione come mai completamente involontaria, ma dipendente dalle condizioni alle quali i lavoratori sono disposti a lavorare. Attraverso la precarietà del posto, la riduzione del salario, la flessibilità nell’orario e la messa in discussione della sicurezza nei luoghi di lavoro, ma anche non iscrivendosi al sindacato che contesta gli accordi imposti dall’azienda.
Ora se questa è, come a me sembra, la situazione politico sociale presente nel Paese, il dibattito che si è aperto sui possibili sbocchi da dare alla scadenza elettorale della primavera del 2013 e se riconfermare o meno “l’eccezione” di Mario Monti al governo, non può prescindere, in particolare a sinistra, da un giudizio di merito della politica dell’attuale governo.
E qui il discrimine non può che essere tra chi si ritrova nella linea dell’austerità, ha nostalgia per il periodo “bleriano” e ripropone una terza via capace di attenuare l’egemonia neoliberista, e chi ritiene che dalla crisi si può uscire con i contenuti di una sinistra larga, autonoma, non ideologica, capace di porre al primo posto l’economia reale, la valorizzazione del lavoro, la ridistribuzione del reddito, il rispetto dell’ambiente e disegnare un rinnovato welfare universale. Una sinistra che in Europa sia in grado di concorrere e si senta parte attiva, senza remore, delle formazioni e dei partiti socialisti e socialdemocratici europei.
Renzo Penna – Alessandria