di Bruno Soro
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“Il sottoproletariato, questa marcescenza passiva dei ceti infimi della vecchia società, viene in qualche caso trascinato da una rivoluzione proletaria, ma per tutta la sua esistenza sarà più incline a vendersi ai reazionari intriganti”.
Karl Marx e Friedrich Engels, Il Manifesto del Partito Comunista, traduzione di Lucio Caracciolo, Silvio Berlusconi editore, Biblioteca dell’Utopia n. 8 1998
Un luogo comune vuole che, scimmiottando gli scienziati, gli economisti siano quella categoria di professionisti i quali, con dovizia di particolari e utilizzando modelli raffinati e complicati, riescono sempre a spiegare perché ciò che è accaduto non poteva che accadere in quel modo. Non mi sottrarrò a questo luogo comune. Contro le previsioni della totalità dei sondaggi preelettorali e della maggioranza delle opinioni espresse sui mezzi di comunicazione (leggi quotidiani, reti televisive, appelli di intellettuali e promesse che non si sarebbero potute mantenere), Donald Trump ha vinto le elezioni presidenziali e sarà il 45° Presidente degli Stati Uniti d’America. Quanto alla sconfitta Hillary Clinton è forse il caso di dire che, in una elezione nella quale si può perdere anche avendo ottenuto la maggioranza dei voti, l’unione di tutte le minoranze non fa la maggioranza (avendo goduto del sostegno di gran parte dei giovani, dei maschi e femmine ‘diversi’, delle femministe, della maggior parte dei cantanti, delle artiste, degli attori, registi e scrittori, dei giornalisti e dei sondaggisti, degli addetti alla finanza e dei finanzieri, dei Presidenti e delle First Ladies in carica e fuori casa).
L’esito delle elezioni presidenziali negli USA non è infatti una sorta di referendum pro o contro uno dei due candidati avversari, ma il risultato di un complicato sistema elettorale, tipico di uno Stato Federale, in cui in ognuno dei cinquanta Stati che lo compongono, al candidato più votato viene assegnato un numero prefissato (in proporzione alla popolosità degli Stati stessi) di “grandi elettori” (deputati e senatori). Pur essendo stata la «moglie di Clinton» più votata in termini assoluti, il meccanismo elettorale ha decretato la vittoria dell’imbonitore.
Come scrive il cinico Karl Kraus, “Il segreto dell’agitatore è di rendersi stupido quanto i suoi ascoltatori, in modo che questi credano di essere intelligenti come lui”. In quest’ottica non si può certo negare che in campagna elettorale Donald Trump sia stato un abilissimo agitatore. Se tuttavia dicessi che avevo previsto l’esito di quelle elezioni sarei un bugiardo. Diciamo piuttosto che, influenzato dall’esito del referendum inglese sulla Brexit, ma più ancora dalla lettura di un paio di articoli pubblicati nei mesi scorsi sul quotidiano economico Il Sole 24 Ore, qualche dubbio mi era venuto. Tant’è vero che mi sono azzardato a scrivere ad alcuni amici, in tempi non sospetti, che “più vedevo passare le immagini dei sostenitori di Donald Trump, più capivo perché i Giudei avessero scelto Barabba”.
Il primo di questi articoli, a firma di Marco Valsania, giornalista e acuto osservatore delle campagne elettorali statunitensi a partire da quella di Bill Clinton, è apparso qualche mese fa (per la precisione domenica 14 agosto scorso), presentandosi con un titolo emblematico, quanto accattivante: “Donald e i bianchi poveri d’America”. In esso l’autore metteva in evidenza la presenza negli Stati Uniti di una “classe sociale «invisibile» alla grande politica e definita White Trash sempre più sensibile al richiamo populista”. Una classe sociale composta da tanti «John Doe» che avrebbero votato nelle elezioni americane. “John Doe – scrive Valsania – fa il camionista quando va bene, è bianco, sui 40 anni e si ferma a uno di quegli autogrill in versione statunitense dove puoi sempre riempire il serbatoio di benzina e lo stomaco di fast food. Non troppo distante da dove si svolge la Convention democratica che incorona Hillary Clinton per la Casa Bianca. Ma a lui appare molto lontana. Gli piace semmai Donald Trump, dice, semplicemente perché non sembra un politico”.
Quello dei «John Doe», aggiunge il nostro osservatore, “non è qualunquismo e neppure rabbia. E’ povertà. La povertà bianca e nascosta d’America alla quale i candidati faticano a rivolgersi”. Un esercito di poveri pari a un sesto dell’intera popolazione statunitense formato non da afroamericani, ma di ispanici o asiatici, “tradizionalmente identificati da collezioni di aggettivi denigratori, il più comune ed evocativo dei quali è white trash, spazzatura bianca”. In altri termini un fenomeno dovuto agli «effetti di una globalizzazione non controllata» e al «prezzo della crescente disuguaglianza», due temi su cui da tempo insiste il Premio Nobel Joseph Stigliz nei suoi libri. Le «crescenti sperequazioni economiche», sottolinea ancora Valsania, hanno provocato quello “sfilacciamento della middle class (che) fa sentire a tanti, forse, il fiato sul collo della «spazzatura». Ciò ha comportato che “sotto la superficie della terra della felicità a portata di mano si (agitassero) lavoro brutale e pregiudizio, che vede i poveri bianchi (come una) razza a parte, solo un gradino sopra gli schiavi afroamericani”. Ancorché “assenti dalla mitologia ufficiale – aggiunge l’osservatore – questi americani non sono mai scomparsi”.
Ma essi si sono fatti vivi al momento del voto e hanno concesso la loro preferenza non ad una donna bianca (come loro), ritenuta, a torto o a ragione, l’icona della disprezzata «borghesia illuminata», quanto piuttosto a quell’abilissimo agitatore che ha saputo incantare quella parte di “sottoproletariato incline a vendersi ad un reazionario intrigante”. Siete poveri e volete l’eliminazione di quel poco di assistenza sanitaria introdotta negli States dall’Obama Health Care Plan? Sarete accontentati. D’altra parte, se siete poveri – è la filosofia repubblicana – è colpa vostra. Fate come me, arricchitevi e potrete curarvi e sollazzarvi.
L’altro servizio che lasciava presagire la sconfitta dei democratici porta la firma di Claudio Gatti, inviato speciale de Il Sole 24 Ore e collaboratore di diverse testate statunitensi, da anni residente negli Stati Uniti. L’incipit del suo servizio è fulminante: “La realtà è che, comunque vada a finire martedì, quell’elettorato arrabbiato, isolazionista e in parte anche xenofobo rimarrà in campo. Perché non è il risultato, bensì la causa del successo di Trump”.
E prosegue Gatti: “Parliamo di milioni di persone di classe sociale e istruzione medio-bassa. Quella che negli anni ’30 si usava chiamare la working class e che dagli anni ’50 è diventata la middle class. Insomma la categoria di americani medi messa al tappeto dall’uno-due subìto con il simultaneo avvento della deindustrializzazione e del «diverso» – messicano afroamericano, femminista o transgender – che ha raggiunto l’apice dell’intollerabilità con l’elezione alla Casa Bianca del figlio di un keniota”. Giungendo a conclusione che, “Per un paese costruito attorno al ‘sogno americano’ della mobilità sociale verso l’alto, trovarsi vittima del trend opposto in seguito alla delocalizzazione industriale non poteva non avere un impatto drammatico”. E così è stato.
Che dire? Che ciò che ha portato alla elezione di Trump è esattamente quello stesso processo che è accaduto (e che sta accadendo) in tutti i paesi occidentali, Europa inclusa. I traumi subiti dalla working class che nel frattempo è divenuta classe media, dal combinato disposto della globalizzazione incontrollata, dell’avvento della «fabbrica-senza-lavoro-manuale» e della finanziarizzazione dell’economia, stanno provocando un terremoto sociale del quale si inizia solo ora ad avvertire le prime scosse. Infatti, l’insieme di quei fenomeni ha inferto un colpo mortale all’economia reale, quella che produce beni e servizi (il PIL) e distribuisce reddito a chi li produce. Posto che avesse ragione Nicholas Kaldor (1908-1986), uno tra i più quotati economisti del secolo scorso, opinione che personalmente condivido, il settore manifatturiero è il «motore dello sviluppo economico», ma oggi quel motore è entrato in panne, provocando il rallentamento (negli Stati Uniti) e l’arresto della crescita economica, congiuntamente all’etica dell’austerità, nella maggior parte dei paesi dell’area mediterranea.
Nel recente libro di Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza. Come la Società divisa di oggi minaccia il nostro futuro (Einaudi, Torino 2013), il Premio Nobel ha cercato, già da qualche tempo, di spiegare al mondo (inascoltato perché considerato troppo di ‘sinistra’?) quali sono le cause economiche del fenomeno populismo (comunque sociologicamente e politicamente declinato). Considerate le scadenze elettorali che a partire dal prossimo 4 dicembre (con il referendum costituzionale in Italia e le elezioni presidenziali in Austria) ci attendono, ma più ancora con quelle che andranno a scadenza nel 2017 in diversi paesi europei, temo che abbiamo appena iniziato a percepire le conseguenze di ciò che oggi minaccia il nostro futuro. D’altra parte, quando il 10 giugno di settantasei anni fa il Principe degli imbonitori annunciava agli imboniti la decisione irrevocabile dell’entrata dell’Italia in guerra, in tutte le piazze d’Italia risuonò un unico Si! E l’hanno avuta.