I profeti dell’Apocalisse [Il Superstite 289]

Arona Danilo nuovadi Danilo Arona

 
Sono passati quindici anni da quell’11 settembre. Da allora il terrorismo jihadista si è modificato ed evoluto. Gli attacchi sono giunti anche nel cuore dell’Europa in forma di attentati vigliacchi e vera e propria guerra (si fa per dire date le vittime inermi…) metropolitana.

Ma il crollo delle Torri Gemelle resiste come mito moderno, il cui stesso “consumo” ne ha fatto un’icona sospesa tra realtà e allucinazione, una sorta di lucida anticipazione dell’Apocalisse nella quale un po’ tutti, più o meno consapevolmente, siamo oggi immersi, soprattutto nelle personali zone infere.
Film e libri. Dei primi non parliamo e rimandiamo ad altra sede a altro tempo l’eventuale trattazione. Per quel che riguarda la letteratura, ivi compresa quella horror, il panorama è straordinario e interessante e, per quel che mi riguarda come lettore, di straordinario valore. In una lista minima questi sono i titoli imperdibili: Good Life di Jay McInerney, Molto forte, incredibilmente vicino di Safran Foer, Windows of the World di Frédéric Beigbeder, Sabato di Ian McEwan, La città fantasma di Patrick McGrath, Giochi d’infanzia di Lynne Sharon Schwartz, Incendiary di Chris Cleave e L’uomo che cade di Don Delillo.

Sono romanzi post-traumatici, ognuno con il suo registro preferenziale, dove il realismo – come in gioco a specchio con la tragedia delle Torri – cede spesso il passo a una dimensione sospesa tra il magico e i confini del reale, dove l’inconscio riemerge e spadroneggia.
Ma quel che il mainstream non può fare dichiaratamente lo può fare il genere. Ed Apocalisseecco come l’horror possa impadronirsi alla sua maniera e con i propri mezzi, che non sono né pochi né banali, dell’orrore supremo dell’11 settembre. Mi duole un po’ citarmi, a va fatto. Credo di avere scritto in tempi non sospetti l’unico romanzo horror italico che entra dentro agli eventi delle Torri Gemelle per tentare di darne una spiegazione in chiave ovviamente metaforica (quasi…), intrecciando la magia nera e certi demoni della modernità. Si chiamava – si chiama tuttora – Black Magic Woman e passò quasi del tutto inosservato, anche se conta estimatori di rango che lo ficcano tra le mie opere più riuscite. Soprattutto perché mi immaginavo, anni prima, che un certo culto di Iside, terroristi “esoterici”, attaccavano l’Occidente… Puro colpo di caso.

Con un salto qualitativo blasfemo mi tocca proseguire con il Re Stephen King e il suo stupendo racconto lungo Le voci delle cose in cui un impiegato di una compagnia assicurativa con sede alle Twin Towers decide la mattina dell’11 settembre 2001 di darsi malato e di non andare in ufficio. Scampato così alla morte per purissimo caso, l’uomo dovrà fare i conti con il recente e tragico passato che torna alla lettera, materializzandosi in casa sua sotto forma di “oggetti”: gli occhiali di una collega, una mazza da baseball, una conchiglia, un cuscino, ovvero tutte “cose” che non dovrebbero più esistere perché carbonizzate assieme a tutto il resto nel crollo. Ma le cose esistono e a un certo punto “parlano”…

A questo dobbiamo aggiungere il mastodontico romanzo The Dome, un’altra rappresentazione in chiave gotico-fantascientifica, ispirata nelle movenze iniziali al basilare I figli dell’invasione di John Wyndham, delle forze collettive che influenzano le società civili nei momenti più critici della loro storia.

Da King passiamo a Graham Masterton, vecchia volpe dell’horror britannico e mondiale (ha scritto più di cento opere tra romanzi e racconti e il suo personaggio/icona resta ancora lo stregone lovecraftiano Misquamacus, reso celebre da una notevole pellicola del 1978 interpretata da Tony Curtis) che si inserisce di prepotenza in queste considerazioni.

Ma andiamo per ordine. Com’è noto, Lovecraft lasciò ai posteri una miriade di appunti che il discepolo August Derleth conservò ed elaborò, trasformandoli in romanzi postumi “a doppia firma”. Tra questi figura Il guardiano della soglia, sulle cui pagine si scopre il nome, minaccioso già di per sé, di Misquamacus, potentissimo stregone indiano in contatto permanente con il pantheon gorgogliante degli “Antichi”. È nel ’76 che Masterton se ne appropria per costruire quello che all’apparenza si presenta come un ennesimo demonic tale in salsa post-Esorcista, ma che in realtà è ben altro. Il libro s’intitola The Manitou (in Italia Manitù lo spirito del male, pure titolo del film) e in quattro parole narra la poco piacevole esperienza della giovane Karen Tandy, che un giorno scopre di avere un tumore in crescita alla base del collo. Ma non si tratta di un tumore normale: lì dentro qualcosa pulsa e cresce. In quella massa che aumenta ogni giorno di più c’è, appunto, Misquamacus, che ha scelto un modo a dir poco terribile per reincarnarsi e combattere la civiltà tecnologica del XX secolo. Per fermarlo non serviranno né medici né ospedali né poliziotti o soldati, bensì uno sciamano indiano e un finto chiromante squattrinato che dovranno vedersela con un orrido nano deforme (per quanto dotato di poteri occulti), perché nel frattempo lo stregone si è beccato i raggi X durante la degenza in ospedale di Karen.

Un personaggio oscuro e potente, grazie anche al cinema, al quale Masterton dedica in seguito altri quattro romanzi: Revenge of the Manitou, Burial, Manitou Blood, Blind Panic e il racconto Spirit Jump, dove a ogni tappa il mefitico Misquamacus se ne inventa di cotte e di crude per tornare nel mondo dei vivi americani e vendicare i torti subiti dal popolo dei pellerossa. In Manitou Blood, edito da Gargoyle nel 2009 (Il sangue di Manitou), il nostro approfitta nientemeno che del tragico snodo dell’11 settembre per incarnarsi – colpa l’infernale calore sprigionatosi dalle torri attaccate – nel Radunatore di Vampiri Vasile Lup e sferrare un incredibile assalto prima psichico e poi fisico nel quale tutta la metropoli viene colpita da un’epidemia di brutali assassini in preda a raptus che uccidono e bevono sangue. Al che poi dilagano i vampiri e allora deve tornare sulla scena la coppia che a ogni romanzo riesce ad avere la meglio su Misquamacus, ovvero il bizzarro chiromante Harry Erskine (che ormai vediamo con le fattezze esclusive del grande Tony Curtis) e lo sciamano indiano John Singing Rock, stavolta presente in forma spiritica perché passato tra i più nel precedente romanzo.

A Masterton si affianca I vampiri dell’11 settembre di Clanash Farjeon, anagramma del nome dell’autore inglese Alan John Scarfe, un romanzo affascinante e complesso che sottolinea quel che il grande Tim Lucas ha con abilità espresso a suo modo nelle ultime pagine de Il libro di Renfield, ovvero che il giorno del grande trauma sta dentro agli autori anche a loro dispetto.

In una bella intervista rilasciata a suo tempo ad Alessandro Manzetti, Lucas si sofferma sui paralleli tra fiction e vita reale e così dichiara: «Nel penultimo capitolo del libro, siamo nel 2001, c’è un personaggio di nome Richard Harland Smith che legge Dracula nel momento dell’attacco dell’11 settembre alla Torri gemelle di New York, e osserva che il senso di invasione e di disperazione nel romanzo è presente per le strade della sua città. In realtà, Richard non è un personaggio, ma un mio vero amico, e quello che scrive nel romanzo è qualcosa che in realtà ha scritto e pubblicato davvero in un gruppo di discussione online al momento dell’attacco dell’11 settembre. Stavo scrivendo Il Libro di Renfield, e la sua scoperta di questo parallelo ha offerto alla mia storia un luogo dove concluderla. Non mi piace l’idea di scrivere un romanzo che è solo pura evasione, preferisco dare al mio lettore un senso di fuga dalla realtà, per poi ritrovarsi improvvisamente in prima linea».

Una concezione “militante” del genere horror che possiamo estendere senza problemi all’amico Andrea G. Colombo e al suo capolavoro Il Diacono, nelle cui pagine trova spazio la possente visione di una Roma devastata dall’Armageddon (l’ultimo – o forse il penultimo – scontro tra le forze del Bene e quelle del Male), nelle cui celeberrime piazze e strade si scatena la ferocia della distruzione metropolitana. Una terza guerra mondiale che richiama chissà con disarmante lucidità la teatralizzazione dell’Assurdo iniziata a Manhattan in quel giorno fatidico.

La disamina non sarebbe completa se non citassimo ancora Andrea Carlo Cappi con la sua bellissima serie di romanzi su Nighshade dove si scrive con acume di ISIS e terrorismo internazionale, all’apparenza fiction, e con un leggendario numero monografico di M – La rivista del Mistero, dedicata a Ground Zero (settembre 2002) in cui Cappi coordinava uno straordinario pool di firme (Altieri, Di Marino, Zucca, Ricciardiello, Marenzana, Kathy Reichs…) a celebrare artisticamente il triste, primo anniversario. Allora Altieri scrisse: «Dall’11 settembre 2001 in avanti stiamo tutti correndo sul filo di una lama di rasoio. L’illusione del benessere continuo, del successo continuo, della prosperità continua, della sicurezza continua è tramontata è tramontata. La strada che ci aspetta è in ripida salita». Quattordici lustri fa, che dovremmo scrivere oggi?