Non ho mai sentito il rumore che fa una sequoia quando cade.
Non so neanche di cosa le sequoie si ammalino, e perché succeda, non so come sia possibile che possa succedere anche alla più maestosa di loro.
Che anche da ammalata rimarrà maestoso gigante.
Sarà maestoso, bellissimo gigante anche quando nel vento non potrà più smettere di tremare.
Vivono fino a duemila anni, le sequoie, e quando la più maestosa di loro cade, quel rumore che non ho mai sentito esce dalla foresta, va nelle città, percorre tutti i continenti.
Muhammad Alí è morto.
Muhammad Alí, il più grande.
Muhammad Alí è immortale.
Il rumore del suo volo di farfalla (vola come una farfalla e pungi come un’ape è la famosissima espressione con cui veniva descritta la sua leggerezza sul ring) sta andando nelle città, sta percorrendo tutti i continenti.
Quel rumore passa per il fondo del fiume Ohio, dove Cassius Clay ha buttato la medaglia vinta alle Olimpiadi di Roma, passa dalla villa di Las Vegas dove giace, misteriosamente morto, Sonny Liston forse colpito da un altro pugno fantasma.
Passa dal Vietnam, dove nessun Vietcong l’ha mai chiamato “nigger”.
Passa di Stato in Stato, dove gli rifiutano la licenza per tornare sul ring, e dalla Corte Suprema che alla fine con una sentenza storica riconosce la sua obiezione di coscienza alla guerra.
Passa per il Madison Square Garden e Manila dove Joe Frazier è ancora lì, mai sceso da quei ring perché un incontro con Alí, anche se lo vinci, ti segna per tutta la vita, figuriamoci tre.
Passa per Kinshasa, “quando eravamo re” e un intero continente lo sceglie per il proprio riscatto.
Diventa un suono scandito, sempre più forte, sempre più insistente, sempre più ritmato, che esce dalla foresta, va nelle città, sveglia le coscienze: Alí bomaye.
Alí bomaye, Alí uccidilo lo gridava tutta l’Africa, durante i suoi allenamenti e poi durante l’incontro di Kinshasa, in quella che allora era la capitale dello Zaire, il “rumble in the jungle”.
Il campione in carica era George Foreman, più giovane, più forte fisicamente. Aveva tolto il titolo proprio a Joe Frazier, che aveva battuto Alí al Madison Square Garden. Aveva messo ko il “mandingo” Ken Norton che ad Alí aveva rotto la mascella.
Alí era meno farfalla, ormai, meno ape. Era in declino, dicevano tutti.
Ma quella notte del 1974 combatteva per molto più che il titolo mondiale dei pesi massimi.
Combatteva per un intero continente.
Combatteva, come ha fatto tutta la vita, per affermare diritti.
Lo ha fatto per tutta la vita, Alí, lui che quasi metà della sua vita l’ha combattuta da ammalato.
Non potrò scordare la sera in cui iniziavano le Olimpiadi di Atlanta del 1996 e lui fu, non annunciato, l’ultimo tedoforo.
Tremava, nel vento, non poteva più smettere di tremare, col Parkinson che lo colpiva più forte di quanto avesse mai fatto un pugile, e continuamente, da tanti anni.
Tutti lo guardavamo stupiti, tutti lo guardavamo commossi, tutti lo guardavamo ammirati mentre con un enorme sforzo portava la fiaccola olimpica e accendeva il braciere.
Maestoso, bellissimo, gigante.
Il più grande.
Il più grande.