Cinquanta bigliettoni [Lettera 32]

Giuliano Beppedi Beppe Giuliano

 

Pochi giorni fa, quando Bob Dylan ha compiuto 75 anni, è stato trasmesso l’unico film che riesce a raccontarlo abbastanza compiutamente. Infatti lo interpretano sei diversi attori, che rappresentano sei personaggi tra loro diversissimi. A somigliargli più di tutto è la Cate Blanchett, che in un bianco e nero citazionista ed efficacissimo lo racconta quando, tra le proteste, “tradì” il pubblico che amava il cantautore della protesta sociale.

Una fase, come tante della carriera di Dylan, durata relativamente poco (i primi Blanchett Dylan  due/tre anni pubblici) che ebbe una sorprendente ripresa a metà degli anni settanta con ‘Hurricane’ sulla storia dell’ingiusta condanna, con implicazioni razziste, per un omicidio che non aveva commesso, di Rubin Carter, buon peso medio che trascorrerà in carcere molti anni, e per la cui liberazione proprio la canzone di Dylan sarà fondamentale.

«Hai detto che avevi puntato cinquanta bigliettoni su Walcott» dissi.
«È vero» disse Jack.
«È un mucchio di soldi.»
«Non so se ho fatto bene» disse Jack.
«Potrebbe succedere qualcosa.»
«No» disse Jack. «Vuole il titolo, costi quel che costi. Con lui faranno centro.»
«Non si sa mai.»
«No. Vuole il titolo. Vale un mucchio di soldi, per lui.»
«Cinquanta bigliettoni sono un mucchio di soldi» dissi io.
«Gli affari sono affari» disse Jack. «Non posso vincere. Sai che non posso vincere comunque.»
«Finché sei sul quadrato hai una possibilità.»
«No» fa Jack. «Io ho chiuso. Gli affari sono affari.»

Scrivere oggi di boxe sembra, semplicemente, anacronistico. Come scrivere della corrida. L’estratto riprodotto sopra viene da “Cinquanta bigliettoni”. Uno dei 49 racconti di Ernest Hemingway.(Anche scrivere oggi di Hemingway sembra anacronistico, temo).

L’ultimo incontro di boxe che, oltre a diversi documentari e film, molto belli, ispirò anche un gran libro (The Fight di Norman Mailer, che da noi è uscito con vari titoli, il più diffuso ‘La sfida’) è stato il “Rumble in the jungle”, quando Alì in Zinshasa, seppe coalizzare a sé tutta l’Africa, e sorprese il giovane campione George Foreman, in quello che è stato probabilmente il momento finale, splendente, della gloria del pugilato.
Perché c’è stato un tempo in cui la “nobile arte” era con pieno diritto, oltre che nel racconto sportivo, nella letteratura, nella musica, nei film.
Anzi, proprio il cinema resiste nel proporre buoni film che si sviluppano a bordo ring, basti citare ‘Million Dollar Baby’, uno dei capolavori del Clint Eastwood regista, e The Fighter, sui fratellastri Micky Ward e Dicky Eklund, veri boxeur. Due film che hanno anche, entrambi, vinto diversi Oscar.

Scrivere di film e pugilato richiederebbe un articolo a sé (e non è detto che un giorno non lo farò), ma almeno vale la pena, ancora, ricordare i tempi in cui erano i “paisà” a cercare di farsi strada a forza di pugni, dal Rocky Graziano che Paul Newman impersona in “Lassù qualcuno mi ama” al Robert De Niro che reinventa (gigioneggiando parecchio insieme all’amico regista Martin Scorsese) Jake La Motta in “Toro scatenato”.

Corri a casa presto
corri a casa
Boom Boom Mancini sta combattendo
contro Eddie Chacon

Boxe 1L’ultimo paisà di successo è stato Ray Boom Boom Mancini, negli anni Ottanta. Uno che combatteva sempre come se non ci fosse domani, che scendeva dal ring massacrato, ma i suoi avversari erano più massacrati di lui; e uno di loro, il coreano Duk Koo Kim dal ring proprio non scese più, cosa che portò il campione di Youngstown (i suoi venivano da Bagheria) alla depressione, anche perché dopo la morte del pugile coreano si suicidarono la madre, e l’arbitro del combattimento, che non si perdonava di non avere fermato i pugili fino alla quattordicesima ripresa.
Su Mancini ha scritto una canzone, quasi cronachistica e molto bella Wareen Zevon, il cantante “noir” che era il preferito di David Letterman.

In America aveva fatto fortuna anche Primo Carnera, “il gigante di Sequals”, unBoxe 2omone di circa 2 metri: sulla sua statura c’è tutta una diatriba, per decidere se sia stato lui il più alto campione dei massimi di sempre. Di certo è stato il più pesante, a 125 chili e di certo era enormemente più grande dei suoi avversati.
Anche più lento (fisicamente e mentalmente) di loro, almeno secondo “Il colosso d’argilla”, il film con Bogart, l’ultimo che il grande attore interpretò prima di morire di cancro, proprio basato sulle manovre della criminalità per portare al titolo, con delle combine, Toro Moreno, nel film argentino.

Carnera, che lui pure tra l’altro uccise un avversario, era leggenda da noi, e il fascismo sfruttò moltissimo, per propaganda, i suoi successi sul ring, finché non perse male contro il nero Joe Louis, in un incontro che, negli anni trenta, anche in America era pieno di implicazioni razziali. Per poi scoprire che i suoi manager lo avevano truffato, rischiare la fucilazione coi partigiani per qualche stretta di mano di troppo a Mussolini, poi tornare in America a guadagnare con la pagliacciata del wrestling.
Gli toccò vedere anche quello, al vecchio campione del mondo, un film sulla sua storia e la sua carriera gestiti dalla mafia in cui a sconfiggere El Toro Moreno nel combattimento per il titolo mondiale fu proprio il pugile e attore Max Bear, quello che davvero tolse a Carnera il titolo (e che insieme a lui aveva già recitato in “L’idolo delle donne” del 1933).
Al tempo in cui la “nobile arte” era con pieno diritto, oltre che nel racconto sportivo, nella letteratura, nella musica, nei film.