di Pierluigi Cavalchini
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Lascia perplessi la semplicità con cui il Consiglio Regionale, con una mozione sostenuta da diverse e differenti forze politiche, liquida il problema della povertà diffusa. “Non c’è lavoro”? “Ci sono problemi ad arrivare a fine mese?”, “Non bastano più due o tre ‘pezzi’ di stipendi”? Bene… Ecco la via d’uscita…. Rivolgiamoci alle associazioni (più o meno non profit, disperse per il Piemonte) ed avremo la soluzione. Stiamo discutendo di un’utenza tutt’altro che residuale che, a livello nazionale, comprende 301.191 istituzioni, 1 milione circa di lavoratori, 4,7 milioni di volontari e quasi 80 miliardi di euro di entrate (corrispondenti al 3% del Pil). Una “potenza” economica di cui troppo poco si parla.
All’interno di questa categoria convivono esclusivi circoli sportivi e centri per disabili, università private e centri di riabilitazione per ex detenuti. Da quando, nel 1997, è entrata in vigore la legge Zamagni la parola “Onlus”, con l’alone positivo di cui è circondata e tutti i benefici fiscali che comporta, definisce una tipologia di attività vaga e quindi spesso strumentalizzata.
In Contro il non profit, il sociologo politico Giovanni Moro spiega ed analizza in maniera puntuale questo ‘magma’ caotico di norme e definizioni opache caratterizzato solamente per esclusione (“non” profit). E’ infatti la stessa origine del fenomeno, secondo l’autore, a determinarne la natura confusa.
Il titolo polemico potrebbe essere fuorviante perché lo studioso non critica tout court il «terzo settore» ma ne descrive difetti e pregi. «Non potrei proprio essere contro questo tipo di non profit – scrive il sociologo, figlio dello statista Aldo Moro ucciso dalle Brigate rosse nel 1978 – perché in un modo o nell’altro tutta la mia vita a questo è stata dedicata».
Le affermazioni dello studioso lasciano l’amaro in bocca specie quando si va a vedere di cosa si occupano veramente molte di queste “Onlus”. «(organizzazioni) in cui un po’ tutto è possibile, dai ristoranti alle palestre, dalle cliniche alle polisportive con tutto ciò che ne consegue in termini di dubbia utilità sociale, possibili arricchimenti personali, conflitti di interesse, elusione fiscale, rapporti di lavoro insani, concorrenza sleale con le imprese private, ricchi che diventano più ricchi e poveri più poveri, “buoni” che legittimano vantaggi per i “cattivi”». E qui ci stanno anche “contenitori” per passaggi di denaro che, mai come in questo momento di emergenza povertà (aggravata dall’emergenza profughi) trovano canali preferenziali di aggiudicazione di somme e sistemi – più o meno controllati – di ‘equa’ distribuzione delle stesse.
Sempre citando il prof. Moro: “Mentre le rappresentazioni correnti attribuiscono comportamenti auto-interessati o di pura convenienza a cadute o deviazioni di carattere morale, la mia convinzione è che questi comportamenti, stridenti con un senso comune che attribuisce al «terzo settore» virtù intrinseche, siano invece impliciti nella stessa concettualizzazione del non profit, oppure ne siano una conseguenza logica e materiale”.
Com’è possibile che entità di fatto simili ad imprese private ma rese più competitive grazie alla falsa caratterizzazione convivano con le organizzazioni che si occupano della parte più debole della società? A questo proposito Moro cita dati disponibili a tutti, ma spesso ignorati, con l’intento di individuare gli attributi e restituire i privilegi del terzo settore a chi davvero ne segue i principi e di mettere in luce la mercatizzazione delle imprese cosiddette ‘sociali’.
Nella realtà malgrado la intenzione di riconoscere e premiare le attività svolte rispetto ad altri elementi distintivi, ciò che la legge privilegia sono in realtà requisiti che rientrano perfettamente nel tradizionale, ossessivo, formalismo giuridico che soffoca il nostro paese, e che poco o nulla hanno a che fare con ciò che viene realizzato. Nel caso degli enti di tipo associativo non c’è nemmeno una delle caratteristiche definitorie che riguardi l’attività svolta; nel caso delle Onlus ce n’è, più o meno, una su dieci, per quanto importante. Le cose davvero rilevanti, è evidente, sono quelle che stanno scritte negli statuti e in altri documenti ufficiali, non quelle che avvengono nella realtà.
Anche sul piano dei controlli, non solo in linea di fatto ma anche in linea di principio, ciò che è previsto sono controlli sui bilanci, non sul tipo di attività, o sulla sua effettiva utilità sociale e, soprattutto, sulla sua efficacia.
Il secondo elemento critico sta nel fatto che certi tipi di enti (come le associazioni di volontariato o, a certe condizioni, le associazioni di promozione sociale) sono riconosciuti come Onlus a prescindere da quello che fanno: sono «Onlus di diritto». Ciò significa che una organizzazione di volontariato che promuove tornei di scacchi (non per disabili, non per migranti, non per persone in difficoltà) è riconosciuta come una Onlus, mentre un’associazione che difende i diritti dei clienti delle banche che non riescono a pagare i mutui no. Questa idea che qualcuno sia «di utilità sociale» di diritto e non che si riconosca la utilità sociale, a parità di condizioni, come un dato di fatto, è fuori di ogni logica, tranne, forse, quella impazzita dell’amministrazione italiana. Lo stesso meritorio tentativo di introdurre un principio di distinzione all’interno del settore non profit in base al valore sociale dell’attività svolta risulta in questo modo vanificato. Ciò è aggravato dal fatto che la definizione di «utilità sociale» contenuta nella normativa sulle Onlus oscilla tra il riferimento a settori di attività – considerati di per sé utili socialmente – e quello alla condizione dei beneficiari delle attività stesse.
Il terzo elemento da menzionare è che l’elenco delle attività che una organizzazione deve svolgere per essere riconosciuta come Onlus ha un evidente sapore assistenzialistico e un po’ arcaico. Più che di «utilità sociale», come recita l’acronimo, qui la logica sembra quella della assistenza e della beneficenza, precedente alla istituzione dello stato sociale nel corso del ’900 in tutta Europa.
Assistenza, beneficenza, promozione di chi ha poco o nulla, integrazione di chi viene da lontano (ed ha poco o nulla) che ben si congiunge a faciltazioni per chi (pubblico o privato) ha le informazioni giuste al momento giusto…
Con queste avvertenze Vi invitiamo a leggere con attenzione l’allegato ordine del giorno del Consiglio Regionale del Piemonte … verrebbe da dire (citando il proverbio) “falso e cortese”.
collegato al Disegno di legge regionale n. 190 “Bilancio di previsione finanziario 2016- 2018” ai sensi dell’articolo 87 del Regolamento interno
OGGETTO: Valorizzazione di interventi a sostegno delle sperimentazioni di forme associate di collaborazione tra pubblico privato in ambito sociale.
II Consiglio regionale del Piemonte,, premesso che
Negli ultimi anni, complice la crisi economica globale, la povertà in Italia ha subito un deciso aumento, interessando anche famiglie che mai avevano dovuto affrontare ristrettezze economiche tali da rivendicare l’aiuto di politiche di welfare pubblico;
in questo contesto le famiglie povere sono progressivamente aumentate passando da 937.000 del 2008 un ad 1.470.000 nel 2014; nel 2014, inoltre, le persone rischio di povertà sono state circa il 19,4% del totale, quelle che vivono in famiglie gravemente deprivate l’11,6%, mentre le persone appartenenti a famiglie dove l’intensità lavorativa bassa sono il 12,1%;
in Italia è ancora presente una forte disuguaglianza sociale, tale per cui il 20% più ricco delle famiglie residenti in Italia percepisce il 37,5% del reddito totale, mentre al 20% più povero spetta solo il 7,7%;
dei singoli servizi e del volontariato sia ancora insufficiente l’apporto complessivo,
bisogna individuare le risorse possibili disponibili (in termini umani, economici “strutturali”)
si devono formulare proposte di interventi, innovativi d’integrazione dell’esistente, finalizzati rispondere alle criticità emerse dalla mappatura;
deve inoltre supportare soggetti aderenti nella definizione delle linee d’indirizzo dell’attività di progettazione relativamente ai temi del disagio sociale abitativo delle politiche attive per il lavoro;
i risultati in termini di aiuto alle persone alle famiglie in difficoltà sono stati molto convincenti, sia in termini assoluti sia riguardo alla omogeneità di indirizzi indicati dal Patto per il sociale della Regione Piemonte, registrando qualche criticità solamente sull’asse dell’integrazione socio sanitaria;
IMPEGNA
la Giunta regionale valutare di sostenere anche finanziariamente le forme associate di collaborazione tra pubblico privato in ambito sociale, in quanto sono risultate le più adatte rispondere ai bisogni sociali variegati, frutto della perdurante crisi economica;
all’interno di questa categoria, privilegiare tali forme associate sulla base di indicatori specifici di progettualità, originalità ed efficienza nella sperimentazione di nuovi modelli di gestione delle funzioni sociali della collaborazione tra servizio pubblico, privato e sociale ( terzo settore ).
Presentato dai Consiglieri regionali: OTTRIA DOMENICO VALTER (primo firmatario), ALLEMANO PAOLO, APPIANO ANDREA, BARAZZOTTO VITTORIO, BARICCO ENRICA, CAPUTO VALENTINA GIUSEPPINA, CONTICELLI NADIA, CORGNATI GIOVANNI, FERRENTINO ANTONIO, GALLO RAFFAELE, MOLINARI GABRIELE, MOTTA ANGELA, RAVETTI DOMENICO, ROSSI DOMENICO, ROSTAGNO ELVIO Protocollo CR n. 10903 Presentato in data 24/03/2016