Qualcuno forse non sa ancora chi è l’architetto Daniel Libeskind, il personaggio di fama mondiale, autore del nuovo complesso di locali del museo ebraico di Berlino, nonché progettista di quel che doveva essere il palazzo dell’edilizia di Alessandria, quello sgorbio che è stato iniziato e poi abbandonato all’ingresso di Alessandria venendo da Marengo, in quel buco a fianco della rotonda delle tangenziali, vicino al cosiddetto platano di Napoleone.
In quella buca orrenda, dove un tempo scorreva uno dei tanti bracci della Bormida (ricordiamo che le molte anse del fiume arrivavano a lambire la sponda ancora visibile accanto al muro di cinta della ditta Pozzoli, prima dei lavori di deviazione realizzati all’inizio dell’Ottocento), su quel ritaglio di terra stava per sorgere qualche anno fa il palazzo che doveva accogliere la nuova scuola edile e gli uffici dell’Associazione dei costruttori edili di Alessandria. Poi, invece della gloria e la celebrazione dei fasti dell’edilizia alessandrina, arrivò il momento del fallimento, con i conseguenti guai finanziari per gli sponsor dell’iniziativa (e naturalmente per le banche che si erano lasciate convincere a finanziarla).
Ma i ruderi di cemento dell’avveniristico progetto dell’architetto Libeskind, famoso per la sua mania di sfidare le leggi della gravità, con i suoi muri storti e lanciati verso gli spazi del cielo, sono rimasti lì per sempre a ricordarci quello che sognavamo e riportarci invece alle nostre poche realtà.
Adesso il Comune di Alessandria medita di aggiornare il piano regolatore e tra le varie cose, assieme al blocco dei progetti di nuovi capannoni industriali, diventati inutili visto il gran numero di offerte di capannoni dismessi dalle aziende, i tecnici comunali pensano di non proseguire nel rilascio di nuove licenze edilizie in aree periferiche, ma di concentrarsi su progetti di riqualificazione e restauro del patrimonio edilizio esistente, specie quello del centro storico della città. Bene, era ora, dirà qualcuno.
Ma il problema che dovremo affrontare d’ora in poi sarà anche quello del recupero di varie manualità andate perdute, con la scomparsa degli artigiani che un tempo avevano contribuito alle opere edili e non solo, ma anche tutte quelle accessorie costituenti la base del patrimonio artistico e dell’impronta stilistica pubblica e privata della città, stratificata nei secoli. Non sarà più sufficiente l’opera dell’architetto, ma serviranno i maestri d’arte, gli artigiani conoscitori non soltanto del cemento, ma degli stucchi, del legno, del ferro, del vetro lavorato e di tutte quelle cose che rendevano belle le case del Settecento, dell’Ottocento, dell’epoca Liberty del Novecento. Il problema sarà quindi anche quello di dover ricostituire quei quadri di maestranze che fino all’epoca immediatamente seguente alla seconda guerra mondiale, facevano parte di quella straordinaria categoria professionale dei “creatori delle cose”, coloro che per secoli, di generazione in generazione, avevano tramandato la sapienza del fare, del costruite oggetti, la cultura del mestiere di costruttore di bellezza.
Quelli che erano capaci di trasferire il lampo del genio dell’artista nella realtà oggettiva con il semplice lavoro delle mani. Purtroppo i mestieri come il cementista, lo stuccatore, il marmista scultore, il pavimentista a mosaico o alla palladiana di marmo, il vetraio d’arte, l’intagliatore, il restauratore del legno, il fabbro ferraio, sono tutti mestieri scomparsi o in via di estinzione.
Un tempo gli artigiani italiani erano moltissimi e molto famosi in tutta Europa. Penso al tempo in cui i nostri maestri comacini giravano la Francia, la Germania, le Fiandre, al pari di artisti ambulanti, chiamati a costruire chiese, palazzi e città. Penso a coloro che, chiamati dallo zar, costruirono intere città come San Pietroburgo. Erano muratori e artigiani italiani.
Con molto sforzo la Regione Piemonte, organizza da qualche tempo dei corsi di formazione di personale da indirizzare verso i lavori di restauro, cercando di rendere appetibili alla mentalità dei giovani alcuni dei mestieri che si stanno perdendo. Purtroppo però pare che non sia facile rendere seducenti certi mestieri che richiedono non soltanto applicazione e buona manualità, ma anche passione, sensibilità e una certa dose di cultura generale ed artistica di base.
Ho letto con un certo stupore che presso le scuole San Carlo di Torino, che sono fra quelle finanziate dalla Regione per il recupero dei mestieri, non è sempre facile trovare giovani disposti a sacrificarsi con la propria disponibilità all’apprendistato e che fra quelli più interessati ci sono però parecchi immigrati, giovanotti che provengono dall’Africa nera, che sembrano ansiosi di conoscere le bellezze del nostro patrimonio. Speriamo che riescano anche ad assorbire in fretta anche il gusto e l’estrosità che hanno fatto grande un tempo la nostra Italia. Sono convinto che il passo indietro di cui ho parlato nel titolo sia non soltanto utile, ma necessario. L’ubriacatura da omologazione internazionale potrà, anche grazie agli immigrati, essere superata e forse anche la paranoia che da qualche decennio ci blocca.
Luigi Timo – Castelceriolo