«Eco, il barbaro»

Soro Bruno 1di Bruno Soro
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“Oggi arrivano i barbari: sdegnano la retorica e le arringhe
(…) E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?”
Costantino Kavafis, Aspettando i barbari

 

“Dio solo sa dove sarebbe potuto arrivare il professor Umberto Eco se, abbandonati i suoi futili studi di estetica, le sue oscure dissertazioni semiologiche, le sue improbabili velleità narrative, avesse affrontato con metodo la vera questione centrale della cultura di questo secolo: la storiografia alessandrina”. Inizia così la recensione di quel piccolo gioiello editoriale che Umberto Eco ha dedicato all’«alessandrinità», “Il miracolo di S. Baudolino”, apparsa sul numero 27 di venerdì 3 febbraio 1989 su La Stampa, a firma di Piero Bottino.

Conservo, gelosamente custodito tra le pagine di questo delizioso pamphlet, il ritaglio di giornale di questa memorabile recensione nella quale, tra “nomi vietati, strani santi e piani diabolici”, sono raccontati i “caratteri della Mandrognickheit”, quelli che Eco considera i tratti salienti dell’«alessandrinità»”. Per uno come me, tassarolese di nascita, novese di adozione, genovese di frequentazione e “alessandrinoMiracolo di San Baudolino mio malgrado”, il “miracolo di S. Baudolino” è sempre stato, da quando l’ho ricevuto in dono da una gentile amica, una preziosa fonte di citazioni, epigrammi e metafore, che hanno ispirato più di una delle mie “divagazioni di economia, politica e società”.

Ho la sensazione, almeno così mi è parso, ma come recita il titolo della rubrica domenicale di Bottino “Posso sbagliarmi”, che nella selva delle commemorazioni e dei ricordi di questo nobile alessandrino, goloso della “belle calda”, ma che ha fatto grande l’Italia nel mondo e che ha avuto l’ardire, a chi gli chiedeva quale fosse la più brutta città italiana, di rispondere, senza esitazione e senza nominarla, “la mia”, questa preziosa perla sia passata inosservata. Per cui vale forse la pena di richiamare l’attenzione su di essa.

“Il miracolo di S. Baudolino”, un libello che si presenta ben custodito in un cartoncino color tortora, sigillato con una ceralacca rossa su cui spicca il timbro della FISAC, consta di trentadue pagine, delle quali dodici di testo, otto illustrazioni di Mario Annone (ciascuna titolata sul retro); una nota a mo’ di Prefazione della Segreteria del sindacato nella quale si precisa che “Lo scritto di Umberto Eco è praticamente inedito e presenta preziosi ricordi autobiografici con quella sua vena fubalistica che è ormai inconfondibile”; e un colophon, in cui si spiega che “Di questo libro sono state tirate 1.600 copie, tutte numerate e autenticate (la copia in mio possesso porta, stilato a penna, il numero 42) dal Sindacato FISAC-CGIL”, con in basso l’indicazione: “Finito di stampare nel mese di Gennaio 1989 per conto della FISAC-CGIL da Carlo Maccagno – Tipografo in Alessandria”. In altre parole un’autentica perla letteraria.

Eco UmbertoLa struttura e l’evento. “Il miracolo di S. Baudolino” è articolato in quattro capitoletti, dei quali il primo, “La struttura e l’evento”, tratta della città intesa quale “spazio strutturato in cui hanno luogo catastrofi continue”. Ma, per «Eco, il barbaro», le catastrofi, che possono avvenire “anche in una città sonnolenta”, sono eventi dei quali si occupa la teoria matematica delle catastrofi, ovvero quelle situazioni caratterizzate da “mutamenti bruschi”, “alti di livello”, dove “naturalmente «catastrofe» non assume un significato necessariamente negativo”, dal momento che “sono catastrofe la morte, la risata, il subìto assalto di un cane dopo un lungo ringhiare, lo scoppio di una rivolta, l’innamoramento, l’incrinatura che produce il crollo, il salto percettivo per cui riconosciamo il passaggio dal rosso all’arancione, o la trasformazione di una labiale sonora (“ba”) in una labiale sorda (“pa”). E tuttavia, poiché “la scienza è labile”, “(d)i fronte a eventi come la vita di una città i nostri modi di comprensione possono prendere due strade: la statistica e l’epifania”.

Ed è qui che «Eco, il barbaro», sfodera tutta la sua barbarica ironia, in un brano memorabile (da me più volte citato nei miei scritti), nel quale Egli precisa che, se non integrata dall’epifania, la statistica può condurre a interpretazioni aberranti. Scrive Eco:
“La statistica è quella che cerca di mostrarci cosa è accaduto e di aiutarci a capire (e a pianificare) cosa accadrà allineando e comparando cifre. Che nel 1971 Alessandria avesse 102.428 abitanti, e nel 1981 ne contasse 101.075 è un dato statistico. La statistica non sa dove siano andati quei milletrecentocinquantatre alessandrini che mancano. Altre statistiche ci diranno che alcuni sono morti, altri sono emigrati. Difficile dire perché altri non sono arrivati (nati o immigrazioni): bisognerà cercare riscontro in altre statistiche, ancora sulla produzione, sull’impiego della manodopera, sul reddito.
Di statistica in statistica le comparazioni si fanno sempre più ipotetiche, interpretare statistiche non è molto diverso dall’azzardare ipotesi in una indagine poliziesca. I teorici della probabilità citano esempi di interpretazioni aberranti: se su cento casi di cirrosi epatica la statistica dice che dieci soggetti bevevano abitualmente whisky e soda, dieci bevevano gin e soda, altri dieci cognac e soda e così via, lo scienziato imbecille potrebbe giungere alla conclusione che, solo elemento costante, la soda è la causa della cirrosi”.

Ecco che, giunge a conclusione Eco, “ignaro di statistiche quale mi trovo, non mi rimane che contribuire alla lettura dell’evento-Alessandria con qualche epifania”, che consente di frammentare gli eventi, ma che sovente può suggerire “dove possa essere quel luogo lontano dove la regola giace, ignota a tutti”.

Epifanie. Nella primavera del 1943, per sfuggire con la famiglia al completo, ai bombardamenti, ma anche al “fuoco incrociato di repubblichini e partigiani”, il giovane Eco, già barbaro fin da allora, venne sgridato da suo padre per aver chiamato ad alta voce per nome un suo compagno delle elementari. Questo episodio contiene tre epifanie. La prima: frenare gli entusiasmi. Il giovane Eco era stato sgridato “per aver ceduto ad un soverchio entusiasmo”. Seconda epifania: il pudore dei nomi.
Egli aveva “pronunciato sconsideratamente un nome”, dal momento che “non si chiama sconsideratamente qualcun altro per nome, all’aperto, che tutti possano sentire”. Già, perché uno dei “caratteri della Mandrognickheit” è che “ci vuole pudore coi nomi. Un americano – non un «barbaro», dunque – se parla con noi, inserisce il nostro nome in ogni frase, e gradisce che facciamo altrettanto con lui. Un alessandrino può parlare con te per un giorno intero senza mai chiamarti per nome, neppure quando ti saluta. Si dice ‘ciao’, o ‘arrivederci’, non ‘arrivederci Giuseppe’”. Terza epifania: la riservatezza. Siccome “(n)egli spiazzi piatti ed esagerati di Alessandria ci si perde” (…), “chiunque appiattato dietro un angolo, o da una carrozza che passa, potrebbe vederti, scoprirti nella tua intimità, pronunciare il tuo nome, perderti per sempre”.

Mai chiedere “chi sei, che fai, parti?”. Rammenta in proposito Eco la storiella, “veramente alessandrina”, di quando il maestro chiede allo scolaro quando è morto Giulio Cesare. “Lo scolaro alza la testa dal banco: ‘Ah, a l’è mort. A sava gnanca c’lera maravi…”.

Illuminante poi è il racconto di quando, divenuto più adulto, Eco si iscrisse all’Università di Torino. “I torinesi, sono francesi, in ogni caso Celti, non barbari Liguri come noi” e “quando arrivavano nei corridoi di Palazzo Campana al mattino, con una bella camicia e una bella cravatta, mi sorridevano e mi si avvicinavano con la mano tesa: ‘Ciao, come stai’? Non mi era mai capitata una cosa del genere. Ad Alessandria incontravo i compagni intenti a sostenere un muro, mi guardavano con le palpebre semiabbassate e mi dicevano, con pudica cordialità: ‘Ehi, stupid!’. Novanta chilometri di differenza, ed ecco già un’altra civiltà”.

Come quando spararono a Togliatti che anche ad Alessandria ci fu un gran fermento. “Ogni tanto gli alessandrini si eccitano. Riempirono piazza della Libertà, già Rattazzi. Poi intervenne la radio, e diffuse la notizia della vittoria di Bartali al giro di Francia. Una superba operazione di mass media che, si dice, funzionò in tutta Italia. Ad Alessandria non funzionò abbastanza, noi siamo astuti, non ci fanno dimenticare Togliatti con una storiella ciclistica”. E’ bastato infatti che, per caso, un aeroplano sorvolasse per la prima volta Alessandria con uno striscione pubblicitario. E siccome l’alessandrino “è diffidente nei confronti dei piani diabolici, ma molto indulgente verso il caso”, la folla dapprima osservò l’aeroplano e poi, dopo aver commentato la nuova trovata “(una bella idea, una cosina un po’ diversa dal normale, ma guarda cosa vanno ad inventare, le pensano proprio tutte) (…) tutti se ne andarono a casa, perché la giornata non riservava più sorprese. Togliatti dovette cavarsela da solo”.

Aneddoti. Queste storielle, se raccontate ai non alessandrini, “possono fare orrore”. Eco, invece, le trova sublimi. Come quella della storiella della regina Pedoca, il cui assedio alla città dura sette anni, ma che “sconfitta dagli alessandrini, compie un allucinato rituale di rabbia e distruzione, versa sulla terra arida il vino delle sue botti, come ad alludere misticamente ad un grande e barbaro sacrificio di sangue”. Un rituale al quale gli alessandrini “guardano, prendono nota, e ne cavano come unica conclusione che, per indicare la stupidità di qualcuno, si dovrà dire in futuro: ‘fürb c’me Pedoca’”.

O come quella del miracolo di S. Francesco il quale, passando da Alessandria, come a Gubbio converte un lupo. Ma lì ne hanno fatto una storia che non finisce più, mentre “Alessandria ci passa sopra, che deve fare un santo se non convertire lupi? E poi, come potevano capire, gli alessandrini, questo umbro un po’ teatrale e un po’ isterico, che parla agli uccellini invece di andare a lavorare?” San Baudolino, invece è “un santo serio, che fa miracoli assolutamente realistici”. È persino riuscito a compiere il miracolo “di convincere un credulo longobardo (il re Liutprando) che i miracoli non esistono. Per questo gli alessandrini venerano il loro santo non invocandolo mai”. Sarcastico.

Il ballo di San Baudolino. Nel quarto e ultimo capitoletto «Eco, il barbaro» fornisce una impagabile spiegazione della “malattia mortale” che affligge Alessandria: “Ad avere la stoica lucidità di Baudolino si rischia di rimanere ai margini della storia. Non si dovrà forse dire che Alessandria rimane ai margini della Grande Storia proprio a causa delle sue virtù, della sua freddezza. Del suo disincanto di fronte alle follie del mondo?”. E tuttavia, estendendo lo sguardo alla “pianura alessandrina”, quella terra che “non è teatro di tornados tropicali. Semplicemente vi scarnebbia”, Eco fa notare come non sia vero, come si dice, che la terra alessandrina non abbia prodotto cultura: semplicemente “ha prodotto uomini di cultura che sono andati a produrre cultura altrove”. E sfata infine un infamante pregiudizio, quello sulla bruttezza della sua città: “Alessandria è fatta di grandi spazi vuoti, e sonnolenti. Ma di colpo, in certe serate autunnali o invernali, quando la città è sommersa dalla nebbia, i vuoti scompaiono, e dal grigiore lattiginoso, alla luce dei fanali, spigoli, angoli, subite facciate, scorci bui emergono dal nulla, in un gioco nuovo di forme appena accennate, ed Alessandria diventa “bella”. Basta sapersi accontentare.