di Elvio Bombonato
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Lunedì 30 novembre a Casale c’è stata l’anteprima del film sull’amianto “Un posto sicuro” (due anni di lavoro e due mesi di riprese) di Francesco Ghiaccio; nel contempo il TG1 serale ospitava una lunga intervista coi relativi filmati a Pieraccioni, che presentava il suo “Il professor Cenerentolo” (Jerry Lewis?) davanti al sorriso compiaciuto del giornalista. Per carità, anch’io penso che gli incassi ottenuti da film di tal genere aiutino la sopravvivenza del cinema italiano, ma il pezzo era curato dal “servizio cultura” (sic) della Rai.
Lo schifo provato è attenuato dall’attenzione che Fazio nel suo programma ha dedicato al film di Ghiaccio, fin da quando era in lavorazione, ma l’indignazione resta.
“Un posto sicuro” non è un documentario: si tranquillizzino i prossimi spettatori. Fare un documentario sulla tragedia di Casale (l’AFeVA ha raccolto un ricco archivio sulla catastrofe) sarebbe stato più facile; ma Ghiaccio ha scelto di girare un vero film, con l’inizio, lo svolgimento, il finale. Certo non un film televisivo, veloce, coloratissimo, ammiccante, accattivante; però un film autentico, che racconta la storia della riconciliazione dopo quindici anni tra un figlio sbandato (Luca) e il padre ora malato di mesotelioma (cancro pleurico inesorabile e incurabile provocato dall’inalazione della polvere di amianto), e nel contempo il nascere e il consolidarsi dell’amore tra il giovane e la sua fidanzata.
Il titolo esprime più significati: il posto sicuro (ricordiamo il capolavoro di Ermanno Olmi del 1961) è quello dell’operaio che lavora all’Eternit, la fabbrica gioiello della città; è Casale oggi ormai quasi bonificata dall’amianto; è quello del teatro, restaurato dal padre con i risparmi, dove Luca ritrova nel finale la sua vocazione di attore; “è un riparo non solo per il corpo ma anche per l’anima” (Marco D’Amore).
Protagonista del film è Luca (Marco D’Amore, coautore della sceneggiatura e coproduttore con Francesco Ghiaccio) trentacinquenne attore fallito, affetto dalla melanconia dei greci, dal taedium vitae dei latini, dal male di vivere del pastore errante leopardiano. Dotato di fisicità magnetica nei gesti e nello sguardo, esprime un’ampia gamma di sentimenti e atteggiamenti: l’aggressività, quando entra nel bar per sfogarsi e sfiora la rissa, o all’inizio del rapporto col padre, nella scena dei sacchetti del supermercato e nel rinfacciargli ingiustamente di avere ignorato lui bambino e la madre per occuparsi solo del lavoro; la preoccupazione, quando in ospedale l’oncologa l’informa che non si può fare nulla; la durezza, con cui respinge la fidanzata che è venuta a cercarlo; la paura, quando teme, dopo la polvere respirata nel teatro fatiscente, di essere anche lui malato; la rabbia, stavolta sana, durante la manifestazione in Comune per rifiutare la mancia proposta dal magnate miliardario svizzero; il dolore, quando porta il padre morente al pronto soccorso; la tenerezza, quando ritrova la foto di famiglia, e soprattutto verso il padre, ormai malato terminale, quando gli mette il pigiama, o lo osserva dormire ascoltandone il rantolo affannoso, o quando gli porta il caffè nel circolo dei pensionati Eternit; la commozione nei pacati colloqui quasi muti col padre sul ponte; l’autodistruzione, dopo la morte del padre; l’amore, quando recupera il rapporto con la fidanzata lasciandole il disegno dei bambini sul parabrezza; la presa di coscienza, quando riprende a recitare in teatro, raccontando proprio la vita del padre operaio. indossandone orgogliosamente la tuta Eternit.
Una recitazione che da sola rende la visione del film imperdibile, è quella di Eduardo (Giorgio Colangeli), il padre, vedovo, pensionato, solo, perché il figlio si è allontanato: rilevo la lentezza dei movimenti, la misura nei gesti, il timbro della voce calmo e pacato anche nel dolore; è capace persino di autoironia sul proprio destino imminente, non si lamenta mai. Neppure la consapevolezza che è proprio l’Eternit che sta per ucciderlo, scalfisce l’orgoglio di averci lavorato, “in quasi tutti i reparti dice compiaciuto”: è la dignità introversa di chi sa di aver lavorato bene tutta la vita per mantenere la famiglia, di aver appartenuto a quella che una volta era chiamata classe operaia, e di aver portato con fierezza la tuta con la targa Eternit. Commisurata al personaggio è la casa in cui vive: pulita, dignitosa, accogliente nella sua modestia, con la linda camera da letto, la cucina anni ’70, il lampadario e la televisione nel salotto, l’armadio davanti al quale si veste lentamente con cura composta.
Raffaella (Matilde Gioli) è la ragazza che passa dall’attrazione all’amore, attraverso la sofferenza per il dolore di Luca. Ha la femminilità e la grazia, il viso e gli occhi di un’aristocratica dama rinascimentale di Botticelli; riesce a non offendersi quando lui la respinge brutalmente, ed è capace di aspettarlo a lungo da lontano, fino all’intervento decisivo quando lo salva dalla crisi etilica, dopo la morte del padre. Condividerà con Luca il percorso di catarsi, consapevolezza e impegno.
L’oncologa (“interpretata dalla bravissima attrice alessandrina Laura Bombonato“: “La Stampa” ‘1/12/15) dell’ospedale, per il quale è stato scelto un biancore abbacinante e algido, simboleggia tutti i medici e il personale sanitario di Casale, e non solo, che con abnegazione si sono prodigati per trent’anni a curare e a lenire la sofferenza dei malati: ” sei lucido fino alla fine, dice il padre”. L’oncologa riesce a fondere la fermezza professionale con la partecipazione materna alla sofferenza di chi ha davanti, come quando rassicura Luca spaventato dalla tosse, e lo sottopone subito alla TAC, consapevole del dolore che lo sta macerando. La ritroveremo per un istante alla fine, a teatro, sorridente di speranza, nel constatare che anche Luca, come molti casalesi, ha trovato nella lotta il modo per sopravvivere.
E poi vediamo gli abitanti di Casale, che hanno partecipato in massa alla realizzazione del film, rappresentati in particolare da alcuni testimoni. La liceale che vuole laurearsi in medicina per trovare la cura alla malattia che le ha ucciso il nonno. Romana Blasotti Pavesi, per 22 anni presidentessa dell’AFeVA (Associazione Familiari Vittime Amianto) colpita duramente negli affetti più cari, ma capace di dire che anche questo è la vita. Assunta Prato, anch’ella attiva nell’Associazione, ricorda di non aver più suonato il pianoforte regalatole dal marito, dopo la sua morte. L’ ex operaio racconta del collega soprannominato il palombaro, perché si ricopriva completamente di sacchetti di plastica per lavorare, e gli altri lo prendevano in giro: “aveva ragione lui”, conclude. Infine la testimonianza più attuale, quella dell’ operaio che tornando dal lavoro prendeva in braccio il figlioletto, il quale per gioco gli toglieva le fibre di amianto dai capelli, e ora vive nel terrore che possa ammalarsi. Il mesotelioma infatti ha un’incubazione e un decorso che possono durare fino a quarant’anni: tutti i casalesi e quelli che abitano nei dintorni al minimo colpo di tosse rabbrividiscono: d’altronde Casale, oltre ai tremila morti già sofferti, conta 80 nuovi malati ogni anno.
La città appare grigia, quasi deserta, avvolta dalla nebbia (il film è stato girato nei mesi giusti, gennaio e febbraio 2015), la fotografia di Guido Micheletti è spesso volutamente sfocata, il duomo in cui entra il padre vuoto, come il teatro visitato dal figlio; la musica composta dal maestro Enrico Pesce è avvolgente e soffusa, in sintonia col paesaggio. Persino il Po, nel grigiore dominante, partecipa alla tragedia di Casale: sull’isoletta ricoperta d’amianto andavano i bambini a giocare con il polverino; l’immagine finale della cascata che scorre impetuosa sembra un rito di purificazione per il fiume violato dall’Eternit. Incredulità provocano i due brevi inserti originali dell’Istituto Luce: si vedono quasi in posa inconsapevole gli operai, privi di qualsiasi protezione, immersi nella polvere di amianto, le operaie che spalmano con le mani nude le fibre sui tubi che stanno fabbricando.
Concludo con il commento della sequenza delle palline di ping pong scagliate da Luca nel teatro, che compare nella locandina, e rappresenta la chiave di lettura del film. La maestra Giorgia, che ha insegnato proprio nell’aula della scuola elementare Martiri, dove sono appesi i disegni dei bambini, ha scritto il pezzo che compare da qui alla fine dell’articolo.
La pallina da ping pong è la persona che si ammala. Lo spazio che intercorre tra la pallina tenuta in mano e il momento in cui cade a terra, è la vita che resta a quella persona. Tutti i rimbalzi che la pallina fa, prima di fermarsi, cadendo, sono il dolore di coloro che amano quella persona su cui la morte stende il suo velo: il dolore dei vivi, che contano i giorni da passare con lei, e pensano a come prepararsi all’assenza che verrà. Per ogni pallina decine di rimbalzi, per ogni morte vite straziate, che da quel dolore devono rinascere, se ci riescono. Per ogni morte, un’eco dell’urlo di Munch, che risuona anche nel futuro, con il terrore di ammalarsi o di scoprire la peste del polverino in chi ti è accanto. E’ per questo terrore che molti non sono riusciti ad andare a vedere il film: i parenti di chi è malato e ancora vivo, e i posteri dell’Eternit, come le foglie d’autunno sugli alberi della poesia di Ungaretti. Casale appare nel film la città della morte e del dolore, ma anche della consapevolezza che riscatta il torto subito, e dalla disperazione riesce a risorgere, per risuonare in un urlo collettivo. Quell’urlo, che Luca grida muto all’annuncio della morte del padre, nel sentire condiviso sarà un grido che esce dalla dimensione individuale, diventando protesta, ribellione al dominio del potere (la Corte di Cassazione, italiana non svizzera, ha ritenuto prescritto il reato), la quale rivendica i diritti calpestati , prende voce e ridà dignità a tutti quegli operai, orgogliosi di aver fatto il proprio lavoro, con un posto sicuro, pensando di vivere e di lavorare per lasciare ai figli un futuro dignitoso.