di Dario B. Caruso.
Nel weekend ho approfittato di una lieve forma influenzale.
Ne avrei fatto a meno ma – siccome di necessità virtù – ho aggiornato i miei files televisivi e sono venuto a conoscenza di un nuovo format.
Prendete uno spazio, ampio quanto basta per poter contenere un paio di migliaia di persone e dismesso quanto basta da lasciar intendere che il confine tra povertà e potere sia sottile.
Sul palco tre spazi distinti: a destra una postazione fissa con tre conduttori che svolgono, immobili, la parte dinamica dello spettacolo; a sinistra quattro antiche poltrone da cinema che ospitano a rotazione quattro finti giovani che – da copione – pongono domande alle personalità che si alternano nello spazio centrale.
E qui sta la vera innovazione del format.
Gli ospiti dello spazio centrale sono anche registi e sceneggiatori, cioè coloro che non solo hanno ideato il format ma hanno fatto il casting, curato l’allestimento, scritto il copione e messo in scena.
Ognuno di loro viene presentato sul palco al ritmo di spezzoni di brani musicali ridondanti e veramente brutti – inseriti con tempi e modi di chi una consolle da dj l’ha vista solo su Amazon e neanche con troppa attenzione – muovendosi come fanno le star degli anni Settanta ai giorni nostri (mi vengono in mente Al Bano, Orietta Berti e Massimo Ranieri).
Come fondale un gigantesco ledwall che proietta spot di grande impatto visivo che sono però l’unico momento dinamico dello spettacolo se si eccettuano le standing ovation per alcune personalità di spicco, deus ex machina veri dello show.
Poi ho cambiato canale e da “Leopolda, terra degli uomini” mi sono ritrovato su America’s got talent.
E mi sono sentito a casa.
Preferisco i vecchi format, si sa, sono all’antica.