Storia di Antonio, dall’impiego alle Poste al volontariato in Africa: “Là c’è bisogno davvero di tutto”. L’abbraccio con Papa Francesco

Carovillano 1di Eleonora Scafaro

 

 

Barba, occhi profondi, dolci. Un sorriso rassicurante e un bel cappello blu.
Antonio ha settant’anni, ma non li dimostra.
Al bar dove lo incontriamo conosce tutti, saluta con garbo e felicità, quasi quel “Buongiorno!” fosse un grido alla vita.

Antonio Carovillano è proprio così, un amante della vita. Ad ogni costo.
Lavorava alle Poste, ora è in pensione, faceva già il volontario con l’Avoi, l’Associazione volontari ospedalieri per l’infanzia, all’ospedale infantile di Alessandria quando ha conosciuto un frate francescano, padre Emilio, un medico che stava per partire per il Congo.
Era il 1995, la vigilia di una guerra che ha visto circa cinque milioni di morti.
C’era bisogno di aiuto in Africa, di qualunque genere.

Erano passati solo quindici giorni da quando aveva conosciuto padre Emilio e Antonio parte per il Congo.
“All’inizio mia moglie e, a dire il vero, anche io, era un po’ spaventata per la mia partenza. Ma d’altronde la paura fa parte di noi, è bene che ci sia, ci tiene in vita, bisogna vincerla. Chi dice che non ha paura è un idiota” dice Antonio mentre beve un caffè.

“Quando sono arrivato in Africa ho iniziato ad aiutare padre Emilio e gli altriCarovillano 4 volontari, a costruire un ospedale. Facevo di tutto: dall’idraulico al falegname, dal muratore all’elettricista. Ora, dopo vent’anni, faccio anche il ferrista in sala operatoria! In Africa c’è bisogno di personale che sa fare tante cose. Ho sempre amato aiutare gli altri. Quando c’è stato il terremoto in Irpinia, per esempio, sono partito per rendermi utile”.

Arrivato in Africa, Antonio ha percorso seicento chilometri su una Jeep per potere raggiungere il confine con il Congo, dove lo aspettava padre Emilio.
“La prima notte al villaggio, a duemila metri di altezza, mi sono fermato ad osservare il cielo. Era blu cobalto e le stelle sembravano enormi. Individuai quella più luminosa e le diedi il nome della mia prima nipote, Irene”.

Ma l’Africa non è solo bellezza.
“Nella notte venne a bussare un uomo che chiedeva disperatamente aiuto. Diceva che nel suo villaggio alcuni guerriglieri avevano fatto razzie e ucciso alcune persone”.

Carovillano 2Padre Emilio e Antonio andarono subito a dare i primi soccorsi e lo scenario che trovarono era raccapricciante, doloroso, una enorme, profondissima ferita al cuore.
“Trovammo vive – ricorda Antonio – solo una quindicina di persone, presi coraggio e iniziai ad aiutare. Intorno a me vedevo mani, braccia, teste e gambe mozzate di bambini. I guerriglieri si accanivano su di loro perché sono il futuro. Gli uomini, invece, tutti decapitati e le teste impalate”.

Il primo giorno non fu certo facile per Antonio che subito reagì ma, il giorno dopo si sentì male: “Avevo nausea e vomitavo in continuazione. Quelle, sono cose che non si dimenticano”.

Antonio ha molte storie da raccontare. Ha viaggiato tantissimo e come volontario è stato in Burundi, in Honduras, in Madagascar e, adesso, in Sud Sudan, in un lebbrosario. Aiuta, anche con i suoi soldi o con quelli degli amici che lo sostengono nelle missioni, i bambini che non possono più studiare a causa della perdita di un familiare.

La paura, in questi luoghi, ti insegue sempre, quasi come se fossi la preda.Carovillano 3
Proprio in Sudan, Antonio e gli altri volontari dovettero scappare dal villaggio ed evacuare l’ospedale per evitare uccisioni e morti per gli incendi che i guerriglieri appiccano. Avvisati da un collaboratore del posto, padre Emilio e Antonio scapparono mettendo in salvo circa sessanta malati e rifugiandosi nella foresta.

“Eravamo appena arrivati nella foresta quando ci accorgemmo che mancava una donna che aveva appena partorito. Nonostante i guerriglieri fossero ormai vicini, presi la Jeep e andai a prenderla. Quando arrivai lei era già fuori dall’ospedale, sola, con il piccolo in braccio, che piangeva. La misi in salvo. Siamo rimasti nascosti per circa una settimana, dormendo per terra e mangiando radici, insetti, topi e serpenti. Un frate polacco, poi, che sapeva la nostra posizione perché informato da un collaboratore, avvisò i soldati che ci scortarono al villaggio”.

Quando Antonio parte per l’Africa cerca, con molte difficoltà, di tenersi in contatto con i familiari almeno due volte a settimana.
“Mia madre, invece, che abita a Roma da sola e ha novant’anni, ha imparato ad usare il computer e si iscritta a Facebook così quando sono in Africa ci scriviamo in chat. E’ sempre preoccupata che io non mangi!”

Quando racconta dell’Africa, Antonio è felice e gli brillano gli occhi.

Spiega di come gli africani siano ospitali e allegri, anche se non hanno niente, come i bambini, che adorano le caramelle, e come sia solidarietà tra le persone.

Carovillano 5“Quando vado nei villaggi mi porto sempre una quantità enorme di caramelle da distribuire. Una volta rimasi con solo una caramella, allora decisi di tenerla per non fare torti. Il bambino più grande del villaggio insistette per averla, quindi gliela diedi. Lui si sedette per terra e così fecero anche gli altri bambini, in cerchio. Scartò la caramella e la leccò, poi la passò al suo vicino che fece altrettanto e così fecero anche tutti gli altri bambini. Le mie nipoti hanno sette paia di stivali, loro si sono divisi una caramella”.

Ma l’Africa non è solo gioia e allegria, come ha raccontato Antonio. L’Africa è morte, speculazione degli stati più ricchi e dolore.

“I volti dei bambini non li dimentico mai. Dopo una giornata a salvare vite, la notte piango, non si può rimanere indifferenti davanti al dolore di queste persone che vengono sfruttate anche da associazioni come Save te Children e Unicef. Io sono lì, vedo quello che fanno. Emergency, con Gino Strada, è l’unica associazione affidabile, oltre la nostra onlus ‘Le casette per l’Equatoria‘” dice sorridendo.

Antonio ha tanta voglia di raccontare la sua storia e, soprattutto, quella della sua Africa, dei suoi bambini e dei volontari.
Ha provato più volte a coinvolgere la Diocesi alessandrina, ma non è mai stato né ricevuto, né ascoltato. “Allora ho scritto una lettera a Papa Francesco!”.
E, Antonio, a Papa Francesco ha scritto davvero. A settembre è andato a Roma perché convocato per una udienza privata insieme a una decina di persone.
Nella chiesa Santa Marta, dopo la messa, è stato ricevuto dal Papa.

“Quando mi sono trovato davanti a Francesco, lui mi ha detto ‘tu sei Antonio’. risposi Papa-Francesco 5di sì e mi scusai per il mio abbigliamento. Non sapevo come vestirmi e, allora, mi misi un paio di jeans, una camicia bianca e i sandali. Io porto sempre i sandali! Non avevo idea di come ci si vestisse per essere ricevuti dal Papa”.

Papa Bergoglio lo ha abbracciato, gli ha sorriso e ha risposto: “Tu sei tu, e vai bene così”.
Sì, Antonio va proprio bene così.