Il manicomio dimenticato nei meandri della Cittadella di Alessandria [Il Superstite 255]

Arona Danilo nuovadi Danilo Arona

 

Sabato 24 ottobre, ore 20 all’incirca, siamo tra i primi a entrare. Dato che passo per uno che se intende (di cose spaventose), la mia grande amica Ileana Spriano, presidente del Comitato FAI di Alessandria, mi ha voluto accanto a lei per il giro d’inaugurazione attraverso le stanze di Das Asyl Dergessen – Il manicomio dimenticato, allestimento teatrale realizzato in stile visita interattiva nei budelli della nostra straordinaria Cittadella. Doppio interesse quindi, uno per rivedere questa grandiosa location in veste notturna e due per lo spettacolo prodotto da Mystery Hills Group.

Mentre ci avviamo praticamente al buio in direzione del primo grande edificio dall’altra parte della piazza, faccio un rapido reset mentale su questa tendenza artistica (di cui già mi sono occupato ne Il superstite 196, a proposito degli allestimenti fotografici di Silvia Vipiana e Angelica Guida) che recupera la tematica dell’Asylum, il manicomio abbandonato ma pieno di presenze inquietanti, che da tempo – complice la seconda stagione del serial televisivo americano American Horror Story – impazza un po’ ovunque, sino ad averne materializzazioni itineranti anche in Italia in Psychiatric Circus e Circus of Horrors, spettacoli circensi solo all’apparenza, ricreanti sotto il tendone l’atmosfera claustrofobica dei gotici manicomi di un tempo.

Avrò modo di ricredermi. Questa storia è diversa. Perché, okay è un gioco, ma ciAsylum troviamo sul serio nel regno dell’interattività. E noi, una ventina di bipedi umani che dapprima ridono e presto smettono di ridere, non siamo semplici spettatori. Siamo le vittime. Perché gli oscuri corridoi della Cittadella diventano i percorsi infernali di un ospedale militare gestito da nazisti impazziti che custodiscono orripilanti segreti che ruotano tutti attorno ad altrettanto orripilanti esperimenti – non vorrei sbottonarmi di più perché, dato il clamoroso successo, le “visite” saranno replicate a breve. E i nazisti ce l’hanno con noi perché, al seguito di due guide armate che ogni tanto sparano a ombre vaganti nel buio, abbiamo violato uno spazio nel quale mai avremmo dovuto entrare.

In pochi secondi entri nella parte, perché devi correre al buio, accucciarti con grande clangore di ossa scricchiolanti, farti pestare i piedi da ragazzotti presi dal panico e stare attento a non ruzzolare per gradini pericolanti. La cosa sul serio oscura arriva quando vedi a un metro dal naso le lugubri divise del Reich e i mitra, ovviamente finti, che ti puntano alla testa e i venti bipedi, mani dietro la nuca, vengono gettati in una buia prigione e chiusi dentro a quadruplice mandata. È un gioco, d’accordo, ma l’inconscio possiede un suo linguaggio totalmente neutro e il sottile verme della paura si insinua tra le cellule. E mentre qualcuno sussurra «Chiccazzo me l’ha fatto fare?», aumenta la certezza che il bello, si fa per dire, deve ancora arrivare.

Ho promesso di non spoilerare e non lo farò. Devo però confessare che alla fine gli applausi, meritatissimi, riservati dal gruppo dei 20 in salvo alle guide – che li ricevono a nome di tutta la compagnia dei teatranti, più di 40 talentuosissme persone – esprimono anche una buona dose di sollievo. Se qualcuno se ne uscisse con «Accidenti, credevo di non uscirne!», non ci sarebbe da stupirsi.

In definitiva, che ne penso? Andateci, sicuro, è uno spettacolo graficamente violento, a tratti scioccante, e terapeuticamente istruttivo. Perché, al di là dell’horror come genere, che comunque abbonda, qui ti fanno mettere il naso e non solo in quella storia malata e disturbante che troppi anni di nazismo in Europa hanno scritto a mo’ di futura e non dimenticabile memoria. Un bel calcione alle viscere, troppo addomesticate da film o documentari lontani e ingrigiti dal tempo, che ti fa partecipare per pochi minuti all’autentica paura di milioni di vittime condotte dai macellai del Terzo Reich a innominabili destinazioni.

Un tipo accanto a me, durante la recita, ha sussurrato, chissà quanto per celia e quanto sul serio: «Ma adesso dove cazzo ci portano?». Una frase terribile se la incastoniamo nel tempo oscuro della svastica, sussurrata miliardi di volte da labbra tremanti di gente privata della libertà e della dignità. Grazie al Mistery Hills Group che ce lo ricorda in modo anticonvenzionale e non retotico.