di Giancarlo Patrucco
www.cittafutura.al.it
Qualche giorno fa, Giorgio Barberis ha pubblicato un articolo dal titolo: “Regolamento di conti? A proposito delle dimissioni del Sindaco Marino”, dove era già chiaro fin dall’inizio l’oggetto, cioè le vicissitudini che hanno portato infine alle dimissioni del sindaco della capitale e alle vicende ad esse connesse. Ora, se riprendo qui quel riferimento non è certo per polemizzare. Ho grande stima di Giorgio Barberis e mi onoro della sua amicizia. Vorrei soltanto sottolineare alcune delle sue affermazioni – che condivido – e possibilmente andare al di là, estendendo il tema scelto da Giorgio per approfondire la riflessione intorno ai motivi che hanno portato Marino a proporsi per un incarico così difficile, vincere le primarie, vincere le elezioni, per poi deludere come hanno fatto parecchi altri prima di lui.
Per riuscire in questo proposito devo abbracciare uno spazio temporale più lungo, perché solo così potrò chiarire meglio il contesto da cui poi emergono i Marino e si affermano quasi tutte le leadership politiche, a livello nazionale e periferico, qui da noi. Mi pare, questo, un passaggio fondamentale perché lo scenario, cioè l’insieme delle norme costituzionali, delle regole elettorali, delle aspettative e degli orientamenti di chi deve poi esprimersi nel voto, condiziona grandemente le caratteristiche che devono possedere i partecipanti alla fine vittoriosi. Senza dimenticare che alla formazione dell’opinione pubblica concorrono largamente – e direi oggi sempre più pesantemente – i mass media: giornali di carta e on line, televisioni, social e quant’altro.
Poiché la selezione avviene, quasi integralmente, proprio attraverso ciò che veicolano i mass media, possiamo allora cominciare a chiederci cosa i mass media vogliono davvero, da quali necessità essi siano mossi nella scelta dei palinsesti piuttosto che delle prime pagine, e quali obiettivi intendano raggiungere. Sono troppo cattivo se dico che ogni programma viene prioritariamente valutato in termini di audience, ogni giornale sulla base del numero dei lettori, ogni social sulla quantità di contatti? Potrebbe essermi facilmente ribattuto che la gente guarda o legge ciò che gli piace, al che io potrei facilmente controbattere che, essendo l’opinione della gente largamente condizionata dai media, stiamo facendo il gioco del cane che si morde la coda. Quindi, proviamo a spingere l’analisi più in profondità per vedere se possiamo trovare altri, differenti riscontri cui imputare qualche responsabilità.
Quando, agli inizi degli anni ’90 dello scorso secolo, la strisciante crisi delle forme politiche della Prima Repubblica venne impietosamente messa a nudo dalla magistratura, con quella che passò agli atti come la stagione di “Mani Pulite”, ci furono alcune reazioni – da una parte dell’opinione pubblica e da una parte della stessa politica – che trovarono momenti di aggregazione importanti intorno alla necessità di modificare profondamente le forme dello Stato e dei suoi corpi intermedi. Guardando all’esperienza delle democrazie nord europee e a quella statunitense, si formò il diffuso convincimento che l’Italia dovesse andare verso le forme del bipolarismo, agendo al contempo sulle regole elettorali e sulle norme istituzionali per favorire uno snellimento del quadro gestionale e migliorare l’efficienza dello Stato nei suoi rapporti col cittadino.
Ricorderete, immagino, la campagna condotta con successo per l’elezione dei sindaci col doppio turno, l’invenzione delle primarie da parte del Partito Democratico, l’inserimento del nome del leader all’interno dei simboli di partito, il tentativo – non andato a buon fine – di giungere al presidenzialismo, cui si ovviò con il nome del premier indicato sulle schede elettorali dai partecipanti ad ogni coalizione.
Tutto ciò, senza chiederci fino in fondo, per davvero, se questi nuovi modelli avrebbero trovato un’applicazione equilibrata e se politici, mass media e cittadini sarebbero stati in grado di interpretarli correttamente. Ebbene, oggi mi sento di rispondere, a malincuore, di no. No, perché abbiamo finito per trasformare ogni tornata elettorale in un talent show. No, perché cercavamo dei leader capaci e competenti, ma alla fine ci siamo fatti attirare troppo spesso da quelli più suadenti, più eloquenti, più “nuovi”. No, perché abbiamo dimenticato che dai nostri malridotti partiti non potevano emergere – se non eccezionalmente – figure in grado di sostenere quell’impatto. No, infine, perché l’italica gente ha da sempre una passione per il particolarismo, il frazionismo, il familismo, il campanilismo, e ha un concetto alquanto predatorio dello Stato come del bene comune, anche perché a questo convincimento ha contribuito oltre un secolo di malgoverno e forse più.
Vogliamo rivedere l’impianto che abbiamo tanto faticosamente costruito? Beh, io penso che sarebbe utile. Cosa vogliamo da un leader: che ci affascini, che rappresenti la novità, oppure dobbiamo chiedergli soprattutto onestà, competenza, trasparenza? Cosa vogliamo dai mass media: che propongano sempre scoop, rivelazioni sconvolgenti, personaggi emergenti, oppure ci informino sui fatti reali, documentati e documentabili? Cosa vogliamo da noi: fare i tifosi da stadio, oppure affrontare i problemi con quel tanto di ragionevolezza e pacatezza che riusciamo a mettere insieme?
In fondo, qui stanno le differenze fra la vita reale e la tv. Sappiamo ancora distinguerle?