Quell’isola che aveva gli occhi [Il Superstite 248]

Arona Danilo nuovadi Danilo Arona

 
Ho dedicato in passato parecchi mesi della mia vita a Wes Craven, scrivendoci un lungo e dettagliato saggio uscito nel 2002 con il titolo Il buio oltre la siepe, esattamente come il celebre libro di Harper Lee da cui si trasse un bellissimo film di Robert Mulligan. È inevitabile allora qualche riga da parte mia all’indomani della sua morte avvenuta il 30 agosto scorso per una devastante malattia.

Wesley Earl Craven era nato il 2 agosto 1939 a Cleveland, Ohio. Cresciuto in un rigido ambiente anabattista, restò lontano da ogni tentazione mediatica sino al 1962, allorché riuscì a vedere quasi di nascosto il film Il buio oltre la siepe. Da quel momento Wes, quasi come folgorato, si dedicò a recuperare il tempo perduto. Dapprima suonò la chitarra come professionista nei locali di Chicago, quindi frequentò i seminari di letteratura di Eliott Coleman alla Hopkins University, dove conseguì un master in scrittura e filosofia, andando poi a insegnare scienze umane ai college di Westminster e Clarkson. Ma non durò molto. A trent’anni suonati conobbe Sean Cunningham e con lui realizzò quell’incubo indimenticato che era L’ultima casa a sinistra.

Da qui partì la sua carriera che ovviamente non stiamo qui a riassumere. A me diCraven Craven è sempre sembrato straordinario l’innesto che diede origine al suo percorso. Lui lo raccontò così: «Da adolescente, ero un battista fondamentalista, per cui segregato dal resto del mondo. Non potevo bere, fumare, ballare, fare sesso, ascoltare musica o andare al cinema. Ero uno strambo ragazzo che leggeva libri tutto il giorno, dipingeva e tentava di fare il poeta. Così, quando ho iniziato a riappropriarmi della mia vita, mi sono separato dalla mia famiglia. Non c’era dialogo fra noi, non potevamo parlare di nulla. Comunque non sono mai entrato in una sala cinematografica sino all’ultimo anno di università. Un giorno decisi di andare di nascosto a vedere il mio primo film in assoluto, Il buio oltre la siepe di Robert Mulligan, e questo mi eccitò tantissimo. Tutta la mia giovinezza si era basata sulla soppressione delle mie emozioni. Dopo, sempre di nascosto ho potuto cominciare a vedere film di Bergman, Fellini e tutti gli altri».

La carriera di Craven, tra altissimi e pochi bassi, sfiorò in più di un’occasione l’autentico mondo ai confini della realtà che sovente entrava nel suo cinema. Pensate che il suo “marchio di fabbrica” Nightmare – Dal profondo della notte del 1984 gli venne ispirato dalla misteriosa morìa notturna di 117 persone, sparpagliate in ogni angolo d’America e tutte quante appartenenti alla comunità asiatica degli Hmong, trapiantata e dispersa negli Stati Uniti alla fine della guerra del Vietnam: uomini e donne che ufficialmente perirono nel sonno all’inizio degli anni Ottanta per una misteriosa “Sindrome da inaspettata e inattesa morte notturna”, un argomento che ho più volte investigato anche in chiave di fiction (KM 98).

Ma l’esperienza più sconcertante gli toccò nel 1987 durante la lavorazione dello straordinario Il serpente e l’arcobaleno. Wes la raccontò così: «Siamo andati a girare proprio ad Haiti e mai in vita mia ho visto tanta precisa sintonia tra realtà e finzione. A parte i mille bastoni fra le ruote che ci arrivavano dalle autorità locali, ogni giorno si verificava un incidente. Giravamo in periferie squallide e cimiteri profanati. Praticamente tutti gli attori e le persone dello staff hanno avuto problemi di ogni sorta durante la lavorazione. Sapevamo di dover operare in luoghi malsani, così tutti d’accordo decidemmo di mangiare soltanto in hotel. Malgrado la precauzione, chiunque soffrì per tutto il tempo di nausea, di vomito e vertigini senza spiegazione. Questi malesseri durarono per tutto il tempo del soggiorno a Haiti. Il solo a non essere colpito da tutto fui proprio io, perché ebbi la possibilità di partecipare, prima del ciak d’inizio, a una cerimonia voudou di protezione. Con tutto ciò, e non posso scendere in dettaglio, laggiù ho visto la mia ora almeno una dozzina di volte. Ho sperimentato cose strane che mai avrei potuto immaginare. Ho avuto anche incubi spaventosi, che prima o poi ritroverete nel mio cinema dei prossimi anni. Come ci sono passato attraverso, così ne sono tornato. Non soltanto vivo, ma in buona salute. E dopo Il serpente e l’arcobaleno ho deciso di prendere la vita con calma, saggezza e riflessione. Sfortunatamente il resto del gruppo non ha avuto la mia fortuna. Addirittura lontano dal set, attori e tecnici furono vittime di allucinazioni spaventose. Qualcuno, mentre era spettatore di una cerimonia, vide apparire un animale con gli occhi a forma di televisione, che lo fissava ringhiando. Un attore, mentre passeggiava tra le rovine di una fortezza, assistette alla materializzazione di un generale haitiano sul suo cavallo che galoppava tra le rocce. La cosa peggiore fu stata una crisi di follia che colpì un tecnico dopo i primi quattro giorni trascorsi sull’isola. Non sapendo che fare, lo si riportò negli Stati Uniti dove ebbe crisi ancora più forti per altri giorni ancora. Quando si risvegliò, appariva perfettamente normale e non ricordava più nulla. Ciliegina sulla torta, duemila comparse arrivarono a reclamare un aumento di stipendio armate di pietre e fucili a pompa. Così ci spostammo a girare a Santo Domingo».

Se fossimo in un film di Wes Craven, la brutta malattia che lo ha stroncato tutto sommato anzitempo – un tumore al cervello – potrebbe pure essere la conseguenza di un patto magico non del tutto rispettato (quella frase Non posso scendere nel dettaglio lascia intravedere risvolti inquietanti) e la magia nera di Haiti è, secondo gli studiosi, tanto complessa quanto potente. Ma la vita, nella sua tragica dinamicità, è forse più banale. Di certo l’Orrido Morbo dal Nome Impronunciabile se ne porta via sempre di più, lui il vero mostro che spesso alligna anche nell’inconscio. Anche di questo perturbante rapporto – il profondo e la sua somatizzazione – ci parlava il miglior cinema di Wes. Onore al grande esploratore del Buio (oltre la Siepe).