di Bruno Soro
www.cittafutura.al.it
“Lasciatemi emettere e controllare la moneta e non mi importa chi scrive le leggi. (…) Se viene testa vinco io, se viene croce perdi tu”.
Detto attribuito al fondatore dell’impero finanziario internazionale Mayer Amschel Rothschild, da G. Nardozzi, in Il mondo alla rovescia. Come la finanza dirige l’economia, il Mulino, Bologna 2015.
Confesso di non avere mai avuto una grande simpatia (e conseguentemente un grande interesse) per l’Economia finanziaria e in generale per il gioco, ivi compreso quello in cui un arbitro, lanciando in aria una moneta attribuisce ad una delle due squadre la parte del campo in cui essa inizierà a giocare.
Un bel libro del professor Giangiacomo Nardozzi, docente di Economia monetaria al Politecnico di Milano, ha fornito un alibi al mio pregiudizio, pur avendo colmato al tempo stesso una parte infinitesimale della mia ignoranza in quella materia. Con esempi calzanti ed un linguaggio apprezzabilmente divulgativo, egli spiega la nascita, l’evoluzione e l’affermazione del «mondo della finanza», nonché i danni che questa ha provocato (e continuerà a provocare) all’economia reale (quella per intenderci che produce beni e servizi), avendo essa favorito un “crescente indebitamento, maggiore insicurezza economica e fragilità delle banche, ma anche più diseguaglianza con una distribuzione di reddito e ricchezza a favore di pochi, oltre a minor crescita” (p. 9).
Chiariamo innanzitutto la distinzione tra l’Economia monetaria e l’Economia finanziaria: la prima si occupa della moneta, del suo ruolo e della sua importanza nel favorire gli scambi, del suo controllo da parte di una Banca centrale (sia attraverso l’azione che questa esercita sulla «base monetaria» e sui «canali di formazione» della stessa, sia sulla formazione delle regole che governano la creazione della «moneta bancaria» da parte delle banche commerciali mediante l’esercizio della concessione del credito), ovvero mediante l’attivazione delle misure della «politica monetaria»; la seconda si occupa invece della “trattazione del rischio e delle sue infinite specie, rappresentate da tutto ciò che può accadere domani” (p. 8), ovvero il tentativo di ridurre il rischio connesso ad ogni possibile attività umana (sia essa di tipo economico e finanziario, sia per assicurarsi contro eventi naturali temuti). Una riduzione “del rischio specifico (del portafoglio) che aumenta però il rischio per tutto il sistema attraverso una generale crescita dell’indebitamento” (p. 38).
Consideriamo la seguente affermazione tratta dall’incipit dell’Introduzione del libro di Nardozzi: “C’è troppa finanza nel mondo e da troppo tempo. Non solo prima della crisi che essa ha provocato, ma anche oggi con l’economia che procede ancora a rilento per causa sua” (p. 7). In questa affermazione è sintetizzato l’intero contenuto del pamphlet:
1) la spiegazione dell’abnorme crescita della finanziarizzazione dell’economia globale, dalla quale scaturisce l’accumulo della ricchezza finanziaria (che alimenta sé stessa in un circolo virtuoso), che ha preso il sopravvento sull’economia reale (dalla quale scaturisce invece il flusso del reddito che viene annualmente distribuito, in termini di salari e di altri redditi, a tutti coloro che hanno contribuito a produrlo);
2) la riconduzione ad un eccessivo indebitamento di quell’abnorme massa finanziaria, costruita inizialmente, a partire dai primi anni ‘90 del secolo scorso, sui mutui sulle abitazioni, e successivamente amplificata dai contratti derivati e dalle opzioni riguardanti “una sempre più ampia gamma di variabili comprendente prezzi delle materie prime, tassi di cambio e di interesse e indici di borsa, rischi di credito e perfino rischi atmosferici con derivati climatici”. Indebitamento cui ha fatto seguito la formazione della bolla speculativa, l’implosione della quale ha provocato la crisi finanziaria del 2008, trasmessa dagli Stati Uniti all’economia reale del mondo intero;
3) la crescente disuguaglianza tra i possessori della ricchezza finanziaria e i percettori del reddito da lavoro (il cui reddito è fermo ad una quota inferiore al livello raggiunto prima della crisi), disuguaglianza dalla quale discende l’eccesso di capacità produttiva delle imprese, una disoccupazione crescente, nonché il blocco dei consumi delle famiglie. Una situazione che impedisce la ripresa dell’economia reale destinata a perdurare fino a quando, ripianata una parte dei debiti, le famiglie non riprenderanno ad acquistare beni e servizi intaccando però i risparmi e la ricchezza privata.
Fantasie? Esternazioni ideologiche di economisti vetero-keynesiani o di sinistra? Simpatizzanti di Tsipras, di Podemos e degli anti-sistema e populisti della rete nazionale guidati dal comico Beppe Grillo e dalla sua spalla informatica Gianroberto Casaleggio? Non direi. E’ sufficiente scorrere gli ultimi capitoli de Il mondo alla rovescia, dedicati al “(troppo) governo dei banchieri centrali” e “Una morale, una speranza”, per convincersi di come l’analisi del professor Nardozzi (coautore di una ricerca sul tema condotta presso il Politecnico di Milano ), si estenda per gran parte del libro nella spiegazione del funzionamento del mondo della finanza e dei suoi strumenti, avendo tuttavia “in mente – come acutamente osservato da Paolo Savona -, soprattutto le attuali condizioni dell’eurozona”. Rifacendosi ad un celebre passo della Teoria Generale di Keynes, nel quale il grande economista inglese stigmatizza come le “idee degli economisti e dei filosofi politici”, così come quelle “degli uomini della pratica, i quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale”, siano in realtà schiave “di qualche economista defunto”, Nardozzi sottolinea come agli “uomini della pratica” piaccia pensare “che sarebbe sufficiente seguire determinate regole fisse per risolvere i problemi dell’instabilità del capitalismo” (p. 151). “Anche oggi, dopo la crisi finanziaria globale e la Grande Recessione – egli scrive – continuano a contare le stesse vecchie idee dalle quali Keynes esortava a fuggire”: idee riconducibili a quella “che tutte le riassume ed è stata rielaborata con tanta e troppa matematica contemporanea (secondo la quale) l’economia di un paese può essere trattata come un mercato” (p. 150).
In altri termini, che l’economia di un paese possa essere spiegata (e conseguentemente guidata) in base al «paradigma di Wall Street», secondo il quale, come in una economia di puro scambio sul tipo di quella del «mercatino del villaggio», il sistema economico, ridotto a mercato, è in grado di autoregolarsi, di riassorbire qualsiasi squilibrio, purché dotato del necessario grado di adattabilità e flessibilità dei «fattori produttivi» o reso tale da opportune «riforme». Peccato che, al fondamento della sua analisi (fondamento spesso ignorato dalla gran parte dei suoi epigoni neoliberisti) lo stesso Keynes, abbia contrapposto al paradigma del «mercatino del villaggio» il «principio della domanda effettiva». Il «principio» secondo il quale l’economia reale di produzione, a differenza del mercato finanziario, richiede tempo e una certa dotazione di capacità produttiva. Mettere in piedi una fabbrica, infatti, non è la stessa cosa che investire un capitale sui mercati finanziari. Occorrono alcuni anni, non pochi secondi, avendo già un’idea (che può rivelarsi a posteriori errata) della dimensione della domanda per i propri prodotti, un’idea che non è soggetta al rischio di una attività finanziaria, bensì all’incertezza, che nessun calcolo probabilistico riesce a valutare. Quando scoppierà la Terza Guerra Mondiale? Provate a rispondere a questa domanda giocando «a testa o croce».