Babadook [Il Superstite 245]

Arona Danilo nuovadi Danilo Arona

 

Come scrive Ilde Giusti (1), nella tradizione popolare l’Uomo Nero è uno sconosciuto che rappresenta una minaccia, più o meno vaga, e che incute paura perché, se non si è buoni bambini, gli si viene dati in consegna. E l’uomo-fantasma che lascia a ognuno il compito di dargli un volto, quello maggiormente rappresentativo dei timori e dei desideri dell’individuo.

Lo si potrebbe quindi considerare come la parte sconosciuta di noi, quella che per un insieme di ragioni sociali o culturali non è connessa alla visione diretta: la parte “in ombra” della personalità, ma a noi intimamente legata. Ma lo si potrebbe anche definire come la parte prepositiva e diabolicamente affascinante in quanto ricca di potenzialità nonché espressione di desideri inconsci. Ma proprio per questo potrebbe diventare la parte temibile nel suo potere corrompente dilagante, incoercibile e divorante.
Così, nel misterioso mondo dei simboli, dalla letteratura al cinema, dai giochi dei bambini alle favole, dall’immaginario tout court alla cronaca, l’Uomo Nero si è via via precisato in un mitologema cui assegnare di volta in volta un nome e un volto.
Chiamato anche Orco o Babau (che sono sì dei sinonimi, ma ognuno con una diversa potenzialità fonetica), l’Archetipo si è ora metamorfizzato sotto le spoglie di Satana, ora in un serial killer, in un fantasma erotico, in un Edward Hyde dissimulato sotto le maschere della personalità multipla o nel simbolo fatto carne dell’assenza della figura paterna (Babau, Babbo e Babadook sono parole del tutto simili…).

E’ stato proprio il ventesimo secolo con l’avvento del cinema, la sconfinata espansioneBabadook dei mass media, la letteratura orrorifica e non solo quella e l’aberrante crescita di certa cronaca nera, a dare forma a una “sostanza” che nel corso dei secoli si è sempre dimostrata informe e “aliena”. In verità stiamo parlando di un planetario archetipo della paura che lascia tracce nei territori dello scibile più disparati.
E sulla sua “necessità”cediamo la parola a Lorenzo Mondo che così scriveva nel maggio del 2001:

Da millenni si raccontavano le storie degli Orchi che rapivano i bambini per farli a pezzi o ridurli in schiavitù. Adesso non si raccontano più. Studiosi saputi hanno detto che quelle storie erano diseducative, avrebbero provocato traumi nella coscienza delicata dell’infanzia. Altri hanno ironizzato su quelle cantafavole, hanno preso perfino le difese degli Orchi, che appartenevano chiaramente alla categoria dei «diversi» e che per questo erano accreditati di ogni nefandezza. Erano semmai da proteggere come una specie braccata, in via di estinzione. Così, gli Orchi erano stati allontanati un poco per volta nelle foreste del folklore. Erano stati sostituiti, nelle apprensioni familiari, dall’uomo che offre caramelle, da rifiutarsi «assolutamente». Ma oggi le caramelle sono decisamente scadute come motivo di seduzione. Non per questo gli Orchi sono spariti, anzi si sono moltiplicati, viaggiano in aereo e navigano su Internet. Adesso li chiamano pedofili e, non più riconoscibili dagli occhi infuocati e dal barbone nero, dal mellifluo cartoccio di confetti, fanno strazio di bambini. Ma altre persone di molto riguardo, che incarnano competenze diverse, negano la loro effettiva consistenza di mostri. Parlano semmai di malati, migliaia di malati, da aggiungere agli innumerevoli malati che ammazzano i genitori, frantumano vecchiette, sparano ai tabaccai. Parlano di pulsioni irresistibili, di fronte alle quali non serve la prigione, che anzi li rende più smaniosi e pervicaci. Non servono neanche le medicine, che non possono essere imposte perché mortificano la loro dignità. Si accapigliano a negare la validità e l’opportunità dei rimedi esistenti, ma non riescono a proporre altre strade ragionevolmente percorribili. Sembrano curiosamente concordare con gli ideologi della perversione, i quali affermano (disperazione o tracotanza?) che un pedofilo guarito è un pedofilo morto. Bisognerà dunque pensare a una pubblica esecuzione? Quella che emerge sembra una resa al più squallido determinismo biologico, alla destituzione di ogni responsabilità che (senza scomodare il peccato originale, il cielo stellato e la norma morale dentro di noi) costituisce l’uomo in persona. Si mette diffusamente in forse la sua capacità di scegliere tra un sì e un no, tra bene e male. E come capita in occasione delle quotidiane scellerataggini, ci si prodiga a cavillare sul destino dei carnefici, che sarebbero da affidare alla clemenza del Padreterno più che della giustizia. Meno si pensa, nel caso in oggetto, alle conseguenze da cui saranno marchiate per la vita le vittime, che i dibattiti lasciano sprofondare nella dimenticanza, nell’insignificanza. Stiamo vivendo un momento di grande confusione, di impressionante declino dell’intelligenza e della coscienza. Capissero almeno, genitori e educatori, che bisogna dirlo e ripeterlo ai bambini: che gli Orchi esistono, che il mondo non è fatto soltanto di amici e gruppi di amici, e neanche di malati da compatire. Bisogna tornare a raccontarle, senza ombra di sorriso, quelle antiche favole.

Maggio del 2001, ancora prima del crollo delle Torri. Sono passati begli anni e la necessità di tornare a raccontare le antiche favole – per dimostrare che gli Orchi, certo, esistono – si è decuplicata. Perché ci si è resi conto, magari anche affondando nel dolore, che non siamo soltanto un corpo fisico che nuota in un vuoto immateriale, ma un totum psicofisico in grado d’interagire con altri corpi sottili di cosiddetta “materia oscura”. Così dal mondo immateriale della letteratura e dei media l’Orco delle favole si trasforma in una realtà vivente. Perché gli Orchi reali si muovono esattamente come i loro modelli “mitici”
Questo “spazio nero” (come lo psichiatra Adolfo Pazzagli ebbe a definire lo Spauracchio) va obbligatoriamente fotografato. E bisogna entrare nel suo antro sin dalla genesi delle filastrocche, delle fiabe, della letteratura per l’infanzia per svelare – anche e soprattutto – l’ambigua collocazione che il bambino occupa nell’immaginario e la forte componente tanatologica che accompagna la sua figura già nelle società tradizionali. Arrivare a un’ipotesi forte (che è anche, di già, una constatazione): le paure reali e quelle immaginarie non si sovrappongono soltanto nella vita infantile e adolescenziale, ma anche in quella adulta, laddove l’uomo continua a essere circondato da paure concrete e da paure “virtuali”, pur dichiarandosi convinto di distinguere le une dalle altre.
Non è così.

Negli ultimi anni la fiction ha nutrito la cronaca. La cronaca ha ispirato e alimentato la fiction. Gli Orchi stanno sui giornali e nelle favole. La destabilizzazione dell’animale uomo inizia sin dalla culla.
Di tutto questo parla un notevolissimo film australiano intitolato Babadook. Purtroppo visto in una sala UciCinema zeppa di adolescenti perturbati e caciareschi cui nulla fregava dell’Uomo Nero sullo schermo. Non a caso.

(1) Ilde Giusti, Il gioco degli specchi, ne Il mistero dell’Uomo Nero, a cura di Maria Rosa Dominici, Thema, Bologna 1990.