Autoreferenzialità o partecipazione?

Cavalchini nuovadi Pier Luigi Cavalchini
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Nel recentissimo “Documento di Fine Mandato” viene citato una volta sola ma – senza dubbio – il termine chiave, il “nemico” di tutta la “piattaforma” è l’autorefenzialità. Un vero spauracchio che viene evocato più o meno esplicitamente in vari punti del testo e che rappresenta, per gli scriventi, il peggiore dei problemi: colui o colei che partecipa per curiosità, per il solo gusto di partecipare ad un’iniziativa (politica e non) che vuole chiarirsi di persona e “vivere” direttamente, per quanto è possibile, ciò che vede solo tramite schermo piatto, o ha le competenze per intervenire altrimenti è meglio che se ne stia tranquillo. Certo, chi è che stabilisce se una persona o un gruppo hanno diritto a partecipare? Su quali basi? Su opportunità pari rispetto agli altri? (per esempio se l’intervento prevede una remunerazione o una qualche forma di riconoscimento).

Un tempo era più semplice “partecipare”, cioè – in un certo senso – essere autoreferenziali, le occasioni pubbliche di incontro e di “manifestazione” erano molte di più, i treni – per partecipare a iniziative lontane – costavano poco (nel 1976 l’equivalente degli attuali sei euro per andare a Roma Termini da Alessandria), la gente, gli amici, i compagni di scuola ti invitavano a partecipare, nessuno ti chiedeva il “pedigree” , le competenze… Bastava uno sguardo, un momento , e via.

Persino i cantautori ci mettevano del loro e così – come diceva Giorgio Gaber“Democrazia è partecipazione”… E potrei continuare … ma preferisco riprendere il ragionamento da dove l’avevo interrotto. Come mai fa paura la “partecipazione”? Perché viene considerata valida solo se in linea con una etichetta tutta particolare che viene, soprattutto, dal mondo accademico e che, sostanzialmente, ci dice di intervenire (cioè di “partecipare”) solo quando si hanno competenze relative all’argomento e si ha voglia di fare gruppo, di operare in modo positivo senza far polemiche. “Perché le polemiche fanno perdere tempo e di tempo ne abbiamo perso anche troppo” , l’ultima frase è del Ministro Boschi in una recente risposta ad una question time alla Camera.

Ecco, il “Documento di Fine Mandato”, più una piattaforma elettorale inRossa Rita 23 vista dei prossimi cinque anni di consiliatura che un impegno di chiusura, parte da questo presupposto, invitando a partecipare solo se si hanno cose utili da offrire, mantenendo competenza e approfondimento nel dibattito, sapendo che i compiti di un Comune sono ormai minori che in passato e che possono avere successo solo se gli interventi troveranno supporto finanziario locale anche privato. Il resto è “fuffa”. E forse lo potrebbe anche essere, sarebbe sufficiente sapere dove e quando vengono stabilite le cose che contano… Fantasie? Illusioni? Mah.

Comunque parte di qui la visione di un “sistema comunale” completamente nuovo improntato all’innovazione, alla comunicazione on line, alla velocità nelle decisioni, alla trasparenza. “Le azioni d’innovazione, insomma, agiscono in prevalenza sul quadro consolidato, operando quando va bene a livello d’innovazione di processo piuttosto che essere orientate ad introdurre elementi di discontinuità a livello di posizionamento del Comune. “ Vale a dire che sono i quasi settecento dipendenti comunali a doversi aspettare riposizionamenti importanti secondo strategie e metodi sommariamente descritti nel “Documento di Fine Mandato”.

E’ molto chiaro l’estensore quando fa riferimento all’impossibilità di un aumento esponenziale (per aggregazione continua) di compiti e spese conseguenti, piuttosto, dice sempre l’estensore del documento, bisognerebbe focalizzarsi sui bisogni, molto cambiati in questi anni: “dar vita ad azioni di promozione di una cultura dell’innovazione basata sui nuovi concetti di sussidiarietà orizzontale, di superamento progressivo del modello incrementale d’intervento (l’aumento esponenziale di cui sopra, n.d.r.), di sviluppo di una capacità di lettura dei bisogni molto più profonda, estesa e condivisa, di capacità di ridiscussione profonda di finalità e metodologie d’intervento”.

Belle parole che sembrano riprendere brani classici di testi di Scienze Politiche che vanno alla identificazione dei bisogni veri della popolazione, di quella data porzione di cittadini in quel determinato luogo ecc. ecc. pensando, poi, a finalità e metodologie di intervento. Linguaggio da laboratorio che porta l’agone politico su un piano tecnico amministrativo, forse efficace, sicuramente noioso e poco stimolante.

Ma non finisce qui. Sempre la nostra piattaforma si lancia in qualcosa di ben più corposo: “Non è possibile pensare solo a difendere quel che è stato realizzato dagli anni ’70 ad oggi. Il modello di welfare locale in essere non si è evoluto negli anni, mentre il quadro dei bisogni è profondamente cambiato (si pensi alle nuove povertà, a nuovi temi come l’immigrazione extra e intra-comunitaria, alla nuova dimensione dei bisogni giovanili, alla sfida culturale della internazionalizzazione dei sistemi di comunicazione e di produzione, e così via).” Due affermazioni che ci permettiamo di mettere in discussione visto che il nostro “welfare locale” è stato per anni al top delle possibilità con riconoscimenti internazionali (fra tutti l’encomio solenne ottenuto- più volte fra gli Ottanta e i Novanta dello scorso secolo – dall’Università di Berkeley riguardo l’organizzazione e l’efficienza degli asili) e che, piuttosto, si sarebbe dovuto migliorare – in qualche caso – e soprattutto estendere alle realtà che non ne avevano ancora pienamente usufruito (per esempio il meridione d’Italia). Anche sulla “novità “ dei bisogni ci sarebbe da discutere, per esempio ce ne sono alcuni (quelli riguardanti il livello internazionale) che ricordano per molti versi la difficile integrazione delle famiglie lucane, calabresi e siciliane emigrate al nord.

Ma soprattutto non si capisce, o – meglio – si capisce benissimo da un altro passaggio che accenna all’onerosità dei servizi scolastici comunali, il perché di questa necessità spasmodica di un nuovo “welfare”, non provando nemmeno a vedere quali furono i molti perchè dei – comunque- non pochi fallimenti precedenti.
Per stavolta ci fermiamo qui, ripromettendoci di ritornare sull’argomento a breve, magari riprendendo le parti della “piattaforma” programmatica che trattano di Teatro – Musei – Cultura oppure la parte finale con impegni “forti” sull’ambiente (*) e il lavoro.

(*) se qualche lettore volesse già abbeverarsi alla fonte non ha che da riprendere il testo integrale già pubblicato su questo sito (tra l’altro in anteprima assoluta) trovando amenità del tipo “salvaguardia dell’acqua” pur in presenza di cave e “sicuri ribassi, benefici ambientali e di ogni genere” con gli impianti di Teleriscaldamento prossimi venturi. Ma non vogliamo andare oltre nelle segnalazioni.