Al termine del processo una cosa era certa: la mATRICOLA era sempre colpevole e, come tale, andava condannata.
Le pene comminate variavano da Ordine ad Ordine ed in funzione dell’estro degli Anziani e la loro maggiore o minore severità del verdetto dipendeva molto dal comportamento della matricola durante il processo, dalla sua preparazione, dalla sua creatività, dalla sua prontezza, dalla sua faccia di latta.
Le matricole potevano essere condannate ad andare in giro (all. 3b) per più giorni con due scarpe spaiate, con calzini di diverso colore, con gli abiti indossati a rovescio (compresi giacche, cappotti e calzoni), con un paio di lerce mutande (su cui dovevano spiccare colorite ed abbondanti macchie, almeno apparentemente, di origine organica) visibilmente indossate sopra i pantaloni.
Certi erano costretti a vivere con la patta dei calzoni perennemente aperta (con visione o meno di mutande sporche) oppure con uno di quei palloncini lunghi e stretti che, legato agli slip, doveva fuoriuscire dalla patta, puntando fieramente all’insù. Il palloncino uscente dalla patta, coperto da un impermeabile bianco, poteva trasformare la matricola in un bieco esibizionista.
In altri casi si obbligavano le matricole (all. 3c), per circa quindici giorni, a radersi solo mezzo viso o a farsi crescere un solo baffo oppure a tenere in testa, ventiquattro ore su ventiquattro, una folta parrucca rosso fiamma, verde pisello o di altre sgargianti tonalità (oggi questi tipi di pena passerebbero inosservati o, addirittura, lancerebbero una moda).
Spesso, matricole che vantavano un fiero onor del mento o un paio di mustacchi degni di Vittorio Emanuele, erano costretti ad andare in giro con mezza barba o un solo baffo.
Anche i travestimenti erano presi in considerazione: quante matricole (ovviamente maschi), con minigonna, tacchi a spillo, imbottitura pronunciata a livello mammario, furono portate a battere in periferia (noi facemmo parte di questa felice schiera e, dobbiamo ammetterlo, in minigonna, facevamo la nostra superba figura).
Quanti minus quam merda, coperti di stracci e sporcati a regola d’arte, furono mandati a chiedere la carità davanti a chiese, supermercati ed in altri posti di forte flusso pedonale, pavesando cartelli con su scritto “Fate la carità ad uno che non ha voglia di fare un cazzo.” o “Non mi tira più, aiutatemi” oppure “Per ora sono sano, ma potrei anche ammalarmi gravemente. Fatemi la carità a titolo preventivo.” e tanti altri analoghi messaggi.
Per proteggere le matricole che battevano i marciapiedi o che chiedevano la carità da malintenzionati o semplicemente da persone che si sentivano offese, un nutrito gruppo di Anziani stava a debita distanza a vigilare.
Restando sul tema travestimenti e simili, ricordiamo di matricole condannate a condurre la normale vita di tutti i giorni (lezioni, laboratori, bar, vasca, aperitivo, ecc.) vestiti in abiti muliebri o in pigiama o con un costume policromo da Arlecchino, oppure col viso dipinto a vivaci colori (ovviamente con coloranti atossici).
La “Lustratio”
La lustratio (all. 1b), una delle pene più comuni comminate alle matricole, consisteva nel lustrare, con lucido da scarpe (per lo più nero) e spazzola, le chiappe dei condannati.
In casi eccezionali e molto raramente veniva effettuata la “lustratio maxima” (oggi la chiameremmo “lustratio total body”) su tutto il corpo. Condannati alla “lustratio maxima” non sono erano solo le matricole, anzi il più delle volte questa pena veniva comminata a Goliardi, anche anziani, che si erano macchiati di gravi reati di lesa Goliardia.
La lustratio del viso (anche in questo caso poteva essere effettuata su qualunque Goliarda) aveva un significato ben preciso: chi la subiva poteva essere definito una faccia di culo.
I Goliardi, nella loro infinita bontà, per non rovinare i vestiti dei condannati, avvolgevano le parti lustrate in carta di giornale prima che questi si rivestissero.
Gli autori materiali della lustratio erano i Fagioli ed in ogni Ordine è sempre stato presente un Fagiolo lustratore (noi lo fummo), adibito a questo compito, sempre provvisto, dovunque andasse, dei suoi strumenti di tortura.
La spazzola veniva passata da Fagiolo a Fagiolo, che doveva custodirla religiosamente e poteva durare anni e anni.
Ci disse, moltissimo tempo fa, un Fagiolo lustratore che la sua spazzola era un prezioso reliquiario, contenente resti di pelosità anali di generazioni di matricole:
– … Chissà, magari c’è anche qualche pelo di Premio Nobel!
La “Bollatio”
Analoga alla “leonatio” era la “bollatio” (all. 1a), solo che al posto di spazzola e lucido da scarpe venivano usati timbri di vari genere e colore.
Molto spesso bollatio e lustratio erano impiegate contemporaneamente sulla stessa matricola.
L’orologio
Diverse erano le versioni di questa pena (all. 3a).
La più comune era l’orologio parlante: la matricola veniva posta a sedere sulla sommità di un armadio (o comunque su di una postazione elevata) e, ad ogni intervallo di tempo prestabilito, doveva comunicare l’ora ai presenti.
La pena durava circa un’ora.
Più simpatico era l’orologio a cucù, in cui la matricola, sempre collocata in posizione più elevata rispetto agli altri, aveva il compito di annunciare i quarti d’ora, le mezze ore e le ore. Ma in che modo?
Il condannato, nudo dalla cintola in giù, ogni quarto d’ora doveva urlare “cucù!”, tirandosi il pisello una volta; doveva segnalare le mezze ore con due “cucù! cucù!” ravvicinati (e contemporaneamente tirandosi per due volte il pisello velocemente) ed infine doveva segnare le ore con tanti “cucù” maestosi e leggermente distanziati gli uni dagli altri, accompagnati da altrettante maestose tirate di pisello.
In questo caso la durata del supplizio era di circa due o tre ore.
A volte, ma più raramente, la matricola davanti ad un cartellone tipo quadrante da orologio, era obbligato ad usare le braccia (o le gambe o entrambe) come se fossero state le lancette.
Mezz’ora era più che sufficiente.
La “leonatio”
Dietro le inviolabili mura delle sedi degli Ordini e dei collegi o in salette riservate di compiacenti bar, le matricole, nude dalla cintola in giù (all. 2a), dovevano rincorrersi l’un l’altra correndo a carponi il più velocemente possibile attorno ad un tavolo, solitamente affollato di Anziani che bevevano o scommettevano.
Ciascuno dei corridori doveva cercare di mordere le chiappe a quello che gli stava davanti.
La matricola morsicata veniva eliminata (e quindi sottoposta, da coloro che avevano scommesso su di lei, ad altri tormenti) e così, a forza di eliminazioni, si arrivava al vincitore della gara. Le dimensioni della tavola erano in funzione del numero dei concorrenti ed ogni volta che uno di loro veniva eliminato, detta tavola (solitamente modulare) era accorciata. Le ultime tre matricole rimaste correvano intorno a due sedie ravvicinate, mentre la finale si svolgeva intorno ad una sola sedia.
La leonatio era molto coreografica sia per lo spettacolo in sé stesso che per il sonoro, dovuto all’ansimare ed al bestemmiare dei contendenti ed alle urla di incitamento, se non addirittura dalle minacce, degli scommettitori.
La “gallinatio”
Di importazione veneta, la “gallinatio” (all. 2b) consisteva nel fare appoggiare ad una matricola il pene su di un piano, circondandolo con un’abbondante manciata di becchime (per lo più semi di mais) e poi invitare una o più galline a questa gradita quanto inaspettata merenda.
… E guai se il condannato con urla o movimenti improvvisi cercava di fare fuggire i già pavidi animali!