Era la parte più importante di tutto il processo, in cui la matricola stava in piedi (o in ginocchio), rigorosamente in mutande, davanti al tavolo del Collegio Giudicante, costituito dagli Anziani dell’Ordine e presieduto dal Capo Ordine o dal Capo Compagnia.
Il Pubblico Ministero era pronto ad infierire e nessuno poteva aiutare l’imputato, se non (così almeno sperava la matricola… povero illuso) l’Avvocato Difensore.
Sono doverose due parole su quest’ultimo pesonaggio, il cui ruolo fu da noi felicemente ricoperto per tanti anni!
L’Avvocato Difensore era il personaggio più subdolo di tutto il processo: apparentemente doveva difendere la matricola, ma in pratica, era quello che lo danneggiava di più, bloccandolo quando rispondeva giustamente, sottolineando i suoi errori (con la scusa di giustificarlo) e chiedendo, a fine interrogatorio, l’inclemenza della Corte. Certi Avvocati Difensori erano talmente bifidi (noi fummo tra questi) che, col pretesto di impugnare la sentenza, la facevano annullare per poi proporne una molto più severa.
La prima domanda era fissa per tutte le matricole era:
– Matricola, definisciti!
E guai se non recitava a menadito e senza esitazioni tutta la filastrocca.
Poi il malcapitato doveva dire nome e cognome ed eranpo cazzi se questi potevano essere interpretati come offensivi o da presa per il culo dai giudici.
Proprio in Alessandria una matricola si presentò dicendo: “Io sono Carino…”
Il Presidente del Collegio Giudicante gli urlò come un forsennato: “E noi cosa siamo? Brutti come il culo! Aspetta che ti cambiamo i connotati così neppure tu sarai carino…”
Con la faccia piena di timbri multicolori poté continuare l’interrogatorio meno carino del solito.
Analoga pena spetto al fagiolo che l’aveva in custodia, in quanto non l’aveva catechizzato per bene!
Dopo la presentazione solitamente si commentava lo scritto, sottolineandone smaccatamente i punti negativi e sorvolando sulle positività (e questo era compito dell’Avvocato Difensore).
Dopodiché le domande variavano in funzione della creatività del Pubblico ministero e del Collegio Giudicante.
Non mancava mai una domanda sulle leggi, sui misteri Goliardici, sulle osterie, sulla conoscenza dei canti Goliardici (tutte cose di cui abbiamo già parlato con dovizia di particolari, per cui, o acefali lettori, sarebbero mentulae vostre andarveli cercare, però, nella nostra infinita bontà, ve ne ripropiniamo un assaggio agli allegati “b” e “c”!).
Sovente la matricola, per dare prova della propria virilità e della sua capacità amatoriale, doveva scopare (stando vestito o, al massimo, in mutande) una sedia o altro capo di arredamento.
A volte gli veniva chiesto di levarsi le scarpe ed un’altra matricola doveva annusargli i piedi: se puzzavano era molto grave perché non si era lavato solo per spregio alla Corte, se non puzzavano era altrettanto grave in quanto era una “bella fighetta tutta profumata”.
Molto carino era porre un maschietto ed una femminuccia uno di fronte all’altra e di propinare loro il seguente esercizio:
– Tu, – diceva il Pubblico Ministero, rivolgendosi al maschio, – dovrai descrivere dettagliatamente la figa e tu, – guardando la femmina, – che ce l’hai in mezzo alle gambe e che quindi dovresti conoscerla, controllerai che non faccia errori. Poi le parti si invertiranno, sarai tu a descrivere il cazzo e tu – di nuovo al maschietto, – dovrai correggerla.
Le femmine… donne, donne, eterni dei… che spesso dovevano dichiarare in sede di interrogatorio di essere l’inutile contorno della vulva…
… le femmine venivano trattate per quasi tutto l’interrogatorio come i maschi, solo che, purtroppo, rimanevano vestite…
Poi alcune domande cambiavano solo per loro.
Quante volte una matricola femmina, dopo aver distinto tra vari ciuffetti di peli quelli maschili, quelli femminili, quelli pubici, quelli anali, qualli dorsali, quelli ascellari, doveva urlare a squarciagola fuori dalla finestra o dalla porta: – Viva il cazzo!
Quante volte doveva rispondere con sincerità quanti peni avesse già biblicamente conosciuto, se preferisse il coito orale o il coito scritto, quale fosse la posizione kamasutriana da lei preferita, se durante l’orgasmo urlasse oppure no.
Poteva capitare (rara avis in desertu…) che una della matricole fosse ancora vergine e che lo ammettesse… allora l’Avvocato, fingendo di volerla difendere da questa grave colpa, dopo aver recitato i versi della “Ifigonia in Culide”:
“Noi siamo le vergini dai candidi manti:
siam rotte di dietro ma sane davanti;
i nostri ditini son tutti escoriati
pei lunghi belini che abbiamo menati.
Nell’arte sovrana di fare i pompini
battiamo le troie di tutti i casini;
la lingua sapiente e l’agile mano
dan gioia e sollievo al duro banano.”,
le chiedeva, con aria contrita, se almeno praticasse quando testé descritto dai versi recitati.
Se la risposta era negativa, la fanciulla veniva lustrata sul viso con lucido da scarpe e scacciata in malo modo dall’aula, mentre tutti i presenti cantavano in coro i versi di “Bimbe belle”:
“Donne mollatela, che la tenete a fare,
viene l’inverno, rischia di congelare,
viene la primavera, rischia di germogliare,
viene l’estate, puzza di baccalà,
viene l’autunno, rischia di fermentare!”
A tutte le donne, a conclusione dell’interrogatorio, veniva chiesto di coniugare l’indicativo presente del verbo conchichiare:
“Io conchichio, tu conchichi, egli conchichia, ecc”
E quindi la matricola procedeva con la coniugazione dell’imperfetto:
“Io conchichiavo…” E tutti: “Con noi!”
“Tu conchichiavi…” E tutti: “Con te!”
“Egli conchichiava…” E tutti “Sempre con te!”
Quando la fanciulla si rendeva conto e si metteva a ridere (o, spesso, arrossiva), l’interrogatorio era finito
A metà di quasi tutti gli interrogatori, sia per maschietti che per femminucce, il Pubblico Ministero, guardando con aria scazzata la matricola, gli urlava:
– Basta! Ci siamo rotti, vai fuori dai coglioni!
La matricola non se lo faceva ripetere una volta e faceva per allontanarsi.
– Dove cazzo vai? Stronzo! Perché, ci consideri dei coglioni?
… E la tortura riprendeva peggio di prima.