di Bruno Soro
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“Se questa è l’allarmata descrizione dei fatti, ad essa corrisponde una indicazione delle cause che appare del tutto deludente”.
F. Caffè, Economia reale e tassi “esplosivi”, in “Contro gli incappucciati della finanza”, Castelvecchi, Roma 2013, p. 221.
Non c’è che dire: le parole più chiare sulle prospettive della ripresa dell’economia reale, con i suoi possibili riflessi sull’occupazione, sono quelle pronunciate dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco nella relazione tenuta qualche giorno fa all’Accademia dei Lincei. “Vi sono, dopo lunghi anni di crisi – ha sostenuto Visco -, segnali di miglioramento delle condizioni macroeconomiche nell’area dell’euro e in Italia”. L’elenco delle possibili condizioni per una ripresa dell’economia sono riconducibili alla “riduzione dei prezzi del petrolio, le misure di espansione monetaria della Bce e la discesa dei tassi d’interesse, il deprezzamento del cambio dell’euro (che) stimolano la domanda globale. (…) Ma il ritorno a tassi di crescita in grado di generare maggiori posti di lavoro (…) – ha sottolineato ancora il Governatore della Banca d’Italia –, passa necessariamente per un aumento sostenuto e consapevole della spesa per investimenti, privati e pubblici, nazionali ed europei”. A tali favorevoli condizioni aggiungerei la consistente riduzione della pressione fiscale sul costo del lavoro per i nuovi assunti introdotta con l’approvazione del Jobs Act.
Egli ha poi ricordato come nei primi anni ’90 del secolo scorso la forte svalutazione della lira ebbe l’effetto di sostenere le esportazioni, “ma – egli sottolinea – tale deprezzamento non fu utilizzato per ristrutturare con investimenti adeguati un apparato produttivo che già mostrava i sintomi della debolezza strutturale che lo avrebbe caratterizzato negli anni successivi”. Dunque, benché l’euro non esistesse ancora, l’apparato produttivo “mostrava già i sintomi di una debolezza strutturale”. Se Fazio avesse speso anche solo una frase per spiegare quali fossero quei sintomi, oggi non staremmo a vedere segni di ripresa in un magro 0,1% (con una forchetta che l’ISTAT stima per il primo trimestre 2015 da -0,1% a +0,3%) di una economia che dall’inizio del secolo è cresciuta ad un tasso annuo medio di 0,2%, il tasso di crescita più basso in assoluto tra tutti i 28 paesi dell’Unione Europea.
Qualche giorno prima, il Direttore Generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi iniziava la Lectio magistralis tenuta presso l’Almo Collegio Borromeo di Pavia con la seguente affermazione: “L’economia italiana si ritrova oggi, come dopo una guerra. Non una guerra del passato, per nostra fortuna, di quelle con spargimenti di sangue e distruzioni fisiche. Ma una di queste guerre moderne, virtuali, in cui capannoni, uffici, posti di lavoro possono vaporizzarsi con il clik di un mouse”. Quanto ai “danni inferti all’economia italiana dalla crisi finanziaria globale del 2007-2008” e successivamente “dalla crisi europea dei debiti sovrani del 2010-2011”, Rossi citava poi i dati di una ricerca condotta nell’ambito dell’Ufficio Studi della Banca d’Italia (1), stando ai quali, “Si stima che l’apparato manifatturiero abbia visto scomparire in questi anni un sesto della sua capacità produttiva”. Sulla spiegazione del perché ciò sia potuto accadere, egli ha citato alcune anomalie del sistema produttivo italiano, prima fra tutte la predominanza delle imprese piccole “generalmente meno competitive delle medio-grandi”, dalle quali traggono origine invece “quasi tutte le esportazioni di manufatti”. La seconda anomalia riguarda i consumi delle famiglie. “Normalmente – scrive Rossi -, ci si aspetta che durante una recessione i consumatori cerchino di mantenere il tenore di vita a dispetto di una riduzione del loro reddito disponibile”. Per contro, durante questa crisi, forse perché intesa come “permanente”, i consumi delle famiglie sarebbero crollati, facendo aumentare i risparmi.
In altri termini sarebbe aumentata la propensione al risparmio, un fenomeno che, come apprendono gli studenti dei primi corsi di economia, ha come conseguenza una tendenza alla riduzione del reddito dovuta al “paradosso del risparmio”. Peraltro, la riduzione dei consumi avrebbe riguardato maggiormente le famiglie più giovani, nelle quali è maggiormente diffusa la “precarietà dei rapporti di lavoro”, mentre nelle classi di reddito più elevate, nelle quali “le famiglie giovani sono poco presenti, si è osservata invece (…) una crescita dei consumi «voluttuari»”.
Le analisi delle più alte cariche della Banca d’Italia appaiono corrette, ancorché limitate temporalmente al periodo più recente. Da esse traspare però che la ripresa, se ci sarà, dovrebbe riguardare principalmente le imprese esportatici, dalle quali ci si attende un aumento degli investimenti. Da un lato, come fa presente il Governatore Visco, perché le condizioni per la ripresa vanno tutte nella direzione di far aumentare la competitività delle nostre merci all’estero, dall’altro, perché, come sottolinea invece il Direttore Rossi, “Fra le ultime due recessioni – quelle del 1992-93 e del 2008-2014 – è successo qualcosa di fondamentale intorno alla nostra economia: è cambiata la tecnologia dominante nel mondo” ed “è stato creato l’euro”. Inoltre, poiché “il complesso delle imprese italiane mostra un forte divario di capacità innovativa rispetto ad altri sistemi avanzati”, la sola possibilità di invertire la tendenza in una «economia della conoscenza» riposa sull’innovazione e sulla capacità delle imprese di cogliere le opportunità del progresso tecnico incorporato nei nuovi beni strumentali, e sull’attivazione di modalità di finanziamento (venture capital) volte a “favorire la crescita rapida di start-up innovative”, un settore, questo, “ancora poco sviluppato in Italia”.
Fin qui le analisi della Banca d’Italia, che fanno luce sulle prospettive di ripresa, ma che lasciano tuttavia qualche ombra.
In primo luogo, perché in un mercato globale, quello al quale guardano le imprese esportatrici, la competitività è sempre meno incentrata sui fattori di competitività di prezzo e sempre più sulla qualità dei prodotti. La produttività del lavoro, dalla quale peraltro dipende la competitività di prezzo, più che influire sulla crescita dell’economia è in buona parte dipendente da essa, essendo la sua crescita in parte legata ai nuovi investimenti che incorporano le innovazioni, e in parte al fenomeno dell’imparar facendo (il learning by doing). C’è da chiedersi se il basso livello della produttività del lavoro non sia dovuto proprio al fatto che l’economia italiana da troppo tempo non cresce.
Secondo, anche prescindendo dello scarso peso che le esportazioni hanno sul PIL rispetto a quello delle altre componenti della domanda interna (2), puntare eccessivamente sulle esportazioni, a maggior ragione su quelle più competitive in termini di prezzo, è assai rischioso. Alla lunga ciò può ricreare quelle condizioni interne che nei primi anni ’60 hanno favorito lo sviluppo dell’economia italiana trainato dalle esportazioni, un modello di crescita che ha portato all’acquisizione di vantaggi comparati nei settori della domanda estera, con conseguente specializzazione nei consumi di massa dei paesi importatori, a scapito però dei consumi interni, nonché alla concentrazione delle attività produttive nelle industrie esportatrici del Nord, favorendo con ciò i ben noti fenomeni migratori interni che oggi verrebbero sostituiti dall’immigrazione extra-comunitaria.
Terzo, dati i vincoli imposti dall’appartenenza all’Eurozona in merito all’espansione della spesa pubblica, l’unica componente della domanda interna sulla quale è possibile intervenire è quella dei «consumi delle famiglie». Consumi dai quali dipende in larga misura la convenienza da parte delle imprese ad effettuare nuovi investimenti produttivi, e la cui ripresa è strettamente legata all’aumento dei salari (specie di quelli dei lavoratori più giovani) e, a parità di reddito, dall’attuazione di misure volte a rendere più equa sia la distribuzione del reddito, sia quella della ricchezza. Misure delle quali, però, non si vede neppure l’ombra.
(1) Monteforte L., G. Zevi (2014), “An inquiry on manufacturing capacity in Italy after the double-dip recession”, in “Gli effetti della crisi sul potenziale produttivo e sulla spesa delle famiglie in Italia”, Seminari e Convegni n. 18, Banca d’Italia.
(2) Vale la pena di rammentare che il tasso di crescita di una economia è la media ponderata delle componenti della domanda in base al peso che ciascuna componente ha sulla domanda complessiva.