Non si riesce a concluderla, la saga del bar Perù. Mi hanno scritto ad esempio che è impossibile non citare il complesso ufficiale del bar e la faccenda, purtroppo, mi riguarda. Il gruppo si chiamò nella sua brevissima esistenza, fisiologicamente giustificata, prima Quattro Denny’s e poi Smaus. Li potete ammirare, in questa clamorosa foto di gruppo scattata nel ’65 al CIAC Club di via Pontida, da sinistra verso destra: il sottoscritto, Mauro Barcellona, Sergio B. Vettori e Mario Torgani con bacchette.
La fotografia qui sotto (cliccateci sopra per ingrandirla e apprezzarla) è un autentico reperto e la sua esistenza in rete la si deve all’amica Ivana Aime, che è presente nell’immagine, la seconda a sinistra. Accanto a lei, la prima della fila, la sorella Maura, subito dopo c’è Mimma, biondissima, che ancora oggi incrocio spesso perché ha una casetta che frequenta d’estate poco distante da dove abito io per tutto l’anno. Dietro a Sergio, con caschettone nero alla Caterina Caselli, Maura Pagella. Quindi Renato Motta con braccia conserte verso la fine della fila e del terzetto femminile che troneggia di sopra, si riconosce Silvana Ferri, da noi conosciuta come la sorella del Tecnico (Mauro) e, se non sbaglio, Antonia, la sorella dello Smilzo. Ma se altri personaggi si riconoscono, si facciano avanti. Ci si conosceva tutti per nome, ma il tempo poi ci ha disperso, fiaccandoci sulla memoria.
Delle imprese musicali del gruppo, Sergio ne converrà, è meglio tacere. Partecipavamo a tutti i concorsi, allora di gran voga, e arrivavamo immancabilmente per ultimi. Una volta che suonammo al meglio, penultimi. Dietro di noi, l‘Equipe 65. Ci esibimmo al CIAC, al Martorelli, al Kursaal Marini e al Mino in Rione Cristo. Qui un’orda di assatanati mi inseguì per un paio di minuti causa pura antipatia e scoprii insospettabili doti di velocista.
La claque del Perù comunque non ci faceva mai mancare il supporto. Capitanato dal sommo Gastone, il gruppo appariva formato in gran parte dalle ragazze fiancheggiatrici. E, a suo modo, la fotografia in questione ne rende giustizia. Quella era una domenica pomeriggio al Ciao Amici Club e, se contate, le femmine sono la netta maggioranza. Bei tempi.
Altro, importante tassello dell’era Perù era la novena del mese di maggio, ovvero le breve funzioni serali – le “benedizioni” – che un ristretto numero di peruviani usava frequentare per ragioni che nulla spartivano con la fede. Il fatto era che alle benedizioni, che iniziavano alle 20,30 e duravano più o meno mezz’ora, si presentavano tutte le più belle ragazzine della Pista e i maschi, tutti assiepati vicino alla porta, si piazzavano in pole position per vederle passare, sempre a gruppi di due, tre o cinque. Per trenta minuti erano soltanto giochi di sguardo. A volte le ragazze, sulla durata della “punta”, ci facevano il mazzo e allora noi, uomini vissuti sui 15-16 anni, si doveva volgere gli occhi altrove, in grado di non reggere a lungo la bellezza di un’espressione intensa.
Tempi e sedi distaccate però non possono distogliere l’attenzione dall’autentico collante culturale, leggi brodo primordiale, della gente del Perù: la musica dei Beatles. Io dal Jack avevo comperato tutto il comprabile che, per fortuna, dati gli anni di cui stiamo parlando, non era molto: gli album 33 The Beatles, I favolosi Beatles, A Hard Day’s Night e The Beatles in Italy, un disco ruffiano uscito solo in Italia, ai quali non avevo fatto mancare per completezza filologica i dischi incisi dai Fab Four ad Amburgo nel 1960 con Tony Sheridan, vedi My Bonnie, Cry for a Shadow e Ain’t She Sweet. Tutta questa musica la si ascoltava e la si discuteva al Perù nella bella stagione, quando si portava stare all’aperto con un mangiadischi, ai tavolini o, se Teresio non era dell’umore, sulle panchine vicine.
Nel nome dei Beatles avevamo forgiato e cresciuto un vero fan del quartetto di Liverpool che si chiamava Lorenzo e abitava al secondo piano del palazzo, proprio sopra il bar. Lorenzo fu per anni un grande amico e ci capitò in anni successivi di dividere percorsi comuni, dal liceo all’università. Purtroppo una ventina di anni fa ha lasciato prematuramente questo mondo, non prima di essersi imposto come egregerrimo campione nazionale nel mondo degli scacchi. In ogni modo, dal ’64 al ’66, Lorenzo – come ogni giovane dell’epoca, o quasi – manifestò un’acuta passione per i Beatles, manifestata a squarciagola soprattutto sul pezzo, celeberrimo, Twist and Shout che è in verità la cover di un pezzo degli Isley Brothers che gli scarafaggi resero immortale. E’ celebre di questa canzone il famoso coretto in crescendo che si concludeva con un vero e proprio urlo, liberatorio quanto animalesco, di John Lennon che rilanciava la notissima linea ritmica. Ebbene, Lorenzo, in un assolato pomeriggio di primavera con tanto di finestre aperte e balconi in fiore, decise di gareggiare con John Lennon sull’intensità vocale dell’urlo di John. Non ricordo bene, ma forse la scuola era finita da poco e si stava in sei o sette a un tavolino davanti al Perù impegnati nella più filosofica delle discussioni adolescenziali (cosa c’è da fare fino alle otto di stasera?), quando sopra le nostre teste iniziarono a risuonare, strombazzate a un volume quasi distorto, le note amiche di Twist and Shout e… sulle stesse, la voce di Lorenzo che si esercitava a mimare Lennon.
Percepito dal basso, quello era un inno alla gioia, soprattutto quella di vivere. E poi, okay, faceva ridere, ma le nostre risate erano, lo giuro, benigne e solidali. Insomma, mentre noi ci gustavamo con autentica goduria l’esaltante invasione sonora, con Teresio che uscito dal bar, guardava arcigno verso l’alto, si giunse al punto clou della canzone.
Il coro con urlo. E ovviamente il contrappunto di Lorenzo.
Bene, sul grido graffiante di John – che, sappiatelo, restò afono per giorni dopo avere inciso Twist and Shout – Lorenzo sbraitò ancora più forte, almeno per quel che si percepiva dal basso. L’ululato di un coyote, a cui stanno staccando la coda con un machete, non rende l’idea da neppure lontano.
Quel che accadde dopo lassù è riferibile solo per interpretazione di una colonna sonora che tento di riportare in modo fedele. Dapprima l’orrido rumore di una puntina trascinata sul vinile che stava letteralmente scalpellando il solco. Quindi un brevissimo silenzio rotto dalla voce adirata di una signora, penso la madre di Lorenzo, che non gradiva per niente le propensioni musicali del figlio. Non mi ricordo affatto le parole, ma il succo era: con i Beatles e il rock’n’roll hai chiuso! Infine, la stupefacente conclusione: dal secondo piano ci piovvero sulle teste pezzi, anche minuti, del disco in questione (che, se non sbaglio, era il 45 giri Misery con facciata B Twist and Shout), ovvero la signora, a quanto pareva furiosa, aveva distrutto il vinile, non senza farcelo recapitare dall’alto in quanto forse ci considerava responsabili delle presunte devianze di Lorenzo. Ah, il tutto tra gli applausi solitari di Teresio che commentava con gioia: Sciapuma ´sa ghineira, ados!
Bisognerebbe aggiungere che in quel condominio, tuttora esistente, non abitavano soltanto Lorenzo e Don Miko, ma pure la Betty. La Betty che allora, senza tema di smentite, era la più bella ragazza di Alessandria. E che, quando usciva, transitando di fianco ai tavolini attorno ai quali ammazzavamo il tempo, esibiva una microgonna ascellare figlia della sua epoca che lasciava alla nostra vista famelica gambe perfette e lunghissime. E tutto quel che s’innalzava oltre quelle gambe rasentava la perfezione pura. Quando la Betty passava davanti al Perù, imponeva un silenzio così tombale che le mosche si suicidavano per non disturbare.
E qui voglio – vorrei – finirla con il Perù. A meno che, di nuovo, qualcuno di voi non mi aiuti a ricordare. Non sarebbe male, perché, se si va avanti, va a finire che ci scappa un libro. Uno di quelli dove un po’ si ride un po’ si piange per la nostalgia. E un po’ ci s’interroga sulle sliding doors. Sapete cosa sono, vero? Ne riparliamo.