Il Bar Perù, oltre alla sua sede ufficiale in viale Medaglie d’Oro, disponeva di alcuni “distaccamenti”. Alcuni erano geograficamente contingenti: piazza Mentana e panchine adiacenti disposte lungo il viale, il Forte della Ferrovia e la soffitta dello Smilzo.
Procediamo per ordine e per motivazioni: partendo da queste ultime, urge sottolineare che uno spirito assai “baletiano” impediva alle coetanee dei maschi del Perù di accedere normalmente al bar, a meno che non le mandasse la mamma a prendere il latte e poi il caffè. Però le ragazze, dalla primavera ad autunno inoltrato, erano solite girare in bicicletta sempre a gruppi di 4-5 soggetti dalle parti della tana e in questo modo si producevano spesso e volentieri situazioni di casta promiscuità. Ricordo di festicciole improvvisate con mangiadischi sulle panchine in piazza Mentana alle quali intervenne qualche volta persino la volante della polizia, chiamata telefonicamente da zelanti cittadini dirimpettai, intolleranti della commistione fra adolescenti in quel periodo storico che stava per fortuna voltando pagina. Se pensare che stia scherzando, vi basti sapere che in un luminoso pomeriggio estivo me ne stavo su una panchina, la più vicina al bar, con una ragazzina di cui non ricordo nulla, e proprio non si faceva nulla se non parlare, anche perché solo quello era concesso dalla situazione ambientale – lei figuriamoci e io a 15 anni re degli imbranati. Insomma, credo che accennai la più classica e timida manovra di aggiramento, il braccio che si allunga dietro alla spalla di lei (ma manco la tocca con i corpi a distanza di almeno un metro), quando alle spalle udii una voce cavernosa e ostile apostrofarci: «Sporcaccioni, andate da un’altra parte o chiamo la polizia!». Mi voltai stralunato – e pure lei, imbarazzata – e tentai di replicare con assoluta educazione, visto che dalla finestra emergeva l’adunco viso rugoso di un uomo anziano, dicendo: «Scusi, ma che sta dicendo? Stiamo parlando.» Nessuna risposta, il tipo chiuse la finestra, sbattendola, e dopo cinque minuti l’incredibile evento: arrivò la polizia, uscirono in due dalla macchina e ci chiesero nome e cognome, annotandoli su un taccuino. Io ne chiesi la ragione e il poliziotto, una faccia cattiva coi baffi, mi rispose così: «Vi denunciamo per atti osceni in luogo pubblico.»
Ovvio che non arrivò mai alcuna denuncia perché quell’orco in divisa aveva inteso solo spaventarci, ma questo era il clima nel 1965, giusto per ricordare su quali binari viaggiava la dialettica adulti versus adolescenti e che l’oscenità stagna quasi sempre nell’occhio di chi osserva.
Tornando alle sedi strategiche, il Forte della Ferrovia era l’autentico luogo proibito. Il maschio peruviano che “beccava” o si fidanzava partiva con la preda – spesso posizionata sulla canna della bicicletta – in direzione dei “fortini”, dando poi a intendere al ritorno di avere vissuto esperienze ai confini della realtà. Ma, trattandosi sempre e comunque di storie private, non è che mi ci possa dilungare.
Laddove alla domenica il privato si trasformava in collettivo era nella soffitta dello Smilzo. La compagnia del Bar Perù si radunava in viale Medaglie d’Oro intorno alle 15 e mezz’ora dopo raggiungeva piazza Garibaldi. Un nugolo di maschi allupati e tappati alla moda dell’epoca con quel che ci si poteva permettere. Il più vistoso risultava quasi sempre essere Giovanni Rastelli, in arte John Reston, che al dì di festa calzava un’attillata camicia verde smeraldo con abbottonatura alla cosacca, talmente luccicante da costringerti a guardarlo con le lenti oscurate. Durante il tragitto si univa al gruppo una parte delle ragazze invitate (farsi trovare davanti al bar forse appariva compromettente per l’epoca) e il resto giungeva alla spicciolata sotto i portici della piazza davanti a un certo portone. Lo Smilzo, che lì abitava all’ultimo piano, una volta che la truppa era al completo, faceva da guida verso i cancelli del cielo. Per raggiungere la soffitta, si doveva transitare – a volte in 20 o 30 soggetti – nella casa privata dei genitori e dei fratelli, salutare tutti con deferenza e poi inerpicarsi su una scala a pioli. Sulla porta d’ingresso dondolava un malizioso logo di benvenuto ideato e realizzato da Gastone: una gabbietta di cocorite verniciata in argento, sportellino spalancato, e legato al piccolo dondolo un bigliettino con sopra scritto: Ragazze, oggi gli uccelli volano. Per fortuna in poche ci facevano caso.
Finalmente dentro, a mezzo metro dal tetto, con piccole feritoie in vetro da cui potevi ammirare piazza Garibaldi dall’alto. E chi voleva per caso assurdo ammirare noi, doveva volgere lo sguardo verso il grande orologio che ogni alessandrino conosce. La soffitta era sul serio un antro oscuro, pochissimo illuminato dalle feritoie e da una luce di Wood, già allora di gran moda. Le stanze in realtà erano due: la prima, la più ampia, dedicata al ballo (solo lenti) e un’altra, piccolina, chiusa da un pesante drappeggio, battezzata dal padrone di casa “la Sala della Pastura”, ignorando di sicuro la nobile origine allusiva del termine ad eventuali soddisfazioni erotiche (1) – diciamo che l’intenzione ci stava tutta e chi raggiungeva in minor tempo la Sala della Pastura, ovviamente non da solo, per molti giorni occupava i posti supremi nelle classifiche di gradimento.
Lo schema della “festa in soffitta” prevedeva il rigido protocollo dei maschi da una parte e femmine dall’altra, con un pirla solitario che doveva preoccuparsi di infilare 45 giri nella bocca del mangiadischi. Fu proprio in soffitta che iniziai ad affinare la mia propensione musicale… Per un po’ ci si guardava da lontano, come se chiunque là dentro fosse transitato per caso. I maschi parlavano di calcio e le ragazze di cosmetici. Poi il dee-jay, indovinate chi, infilava il disco giusto e lo Smilzo partiva per la prima mossa, andando subito a invitare la più carina. Per la cronaca, il disco giusto era sempre Te lo leggo negli occhi cantata da Dino, al secolo Eugenio Zambelli, una roba talmente struggente che l’ha ripresa Battiato nel 2009.
Le ragazze… che dirvi? Le chiamo per nome, si fa così, e in assenza di cognome il riferimento si fa vago e pensate pure che stia buttando giù nomi di pura invenzione. Miriam, Giovanna, Carla, Milena, Antonella, Antonia, la Tecnica, Baba, Daniela, Carla 2, Anna – e poi ancora Anna che lì incontrò Valentino e nacque un amore che dura ancora oggi -, Paola, Marilena, Patrizia. Sì, anche qualcuna un po’ meno carina, battezzata con feroci soprannomi che per fortuna non giungevano mai alle orecchie delle interessate: Occhio di Bue, i Ranzoni degli Orti (erano in tre) e Scareri. Eh, okay, le leggi del branco non sempre sono faccende simpatiche.
In ogni caso le feste in soffitta erano una storia divertente, anche se pochi rimorchiavano, trascinando la novella fidanzata nella Sala della Pastura. Quando capitava, ci si dava appuntamento alla domenica dopo, giusto per non impegnarsi in una storia troppo complicata.
A festa finita, le truppe si scioglievano e la compagnia tornava al Bar Perù, inanellando il tragitto di resoconti spesso fantasiosi sul timing delle limonate con Caia o Sempronia. Più si beccava, più si guadagnavano stima e rispetto da parte del gruppo. Ma questa, presumo, è caratteristica di ogni epoca. Di sicuro Baroni e Podestà sghignazzavano di gusto quando per caso percepivano dai loro giovani clienti gli accorati ragguagli sulle feste in soffitta.
Tutte le belle storie prima o poi finiscono. E un brutto giorno – io almeno me lo ricordo come tale e credo che ci trovassimo già nel ’67 inoltrato -, animata da uno spirito collettivo difficile da decifrare, la compagnia del Perù decise di spostarsi in toto in un locale ampliato e rinnovato dall’altra parte di piazza Mentana. E di puntimbianco divenne la compagnia di quel bar gelateria, abbandonando – non ho difficoltà a usare il termine “tradimento” – quelle belle persone che erano Baroni, Podestà, le loro mogli e le figlie. Io ero il più giovane del gruppo e nessuno mi cagava di striscio. Ci provai a dire la mia e venni zittito. E, va da sé, seguii il branco. Per inciso, queste storie – molto alessandrine – si verificano ancora oggi, determinando fortune e sfortune di bar e locali, un giorno di gran moda e il giorno dopo vuoti come le tasche di un clochard. Ci furono ancora le feste in soffitta e le fughe verso i Fortini, ma il sapore era cambiato, diventando un po’ più amarognolo.
Non so con precisione quel che accadde dopo. Grazie alla testimonianza di una dolce amica, Anna Maria, che mi ha scritto dopo la prima puntata sul Bar Perù, si può affermare con una discreta approssimazione che quel luogo per me meraviglioso chiuse all’inizio degli anni ’70 e i Baroni, credo da soli, aprirono una drogheria poco più in là, in direzione di piazzetta Napoli, oggi Mafalda di Savoia. Teresio (Nanni) sarebbe morto, la figlia Oriana – che magari ci legge – si sarebbe sposata e io avrei incontrato, credo nel ’76, la dolce signora Luisa, moglie di Teresio, proprio sulla porta del negozio, mentre transitavo su quel marciapiede non ricordo più diretto dove. Fu un incontro a suo modo molto commovente che mi scaraventò di colpo dieci anni più indietro. E fu lei a riconoscermi, quella donna dagli occhi profondi e dallo sguardo soavemente severo, e a chiamarmi per nome, pensate un po’ con tutta la gente che doveva esserle transitata davanti in tutti quegli anni. Mi sentii una merda retroattiva. Forse fu proprio da allora che cominciai a maledire, con tutta la mia laica convinzione, l’esecrabile incedere del tempo. Che è lo scherzo meglio riuscito di quel demiurgo che ha creato il genere umano per poi farlo morire lentamente sin dal primo giorno di vita. A meno di sgradevoli imprevisti.
Bar Perù, sempre nel mio cuore.
(1) «Il Re Arrigo era arrivato a una strana sfrenatezza di costumi e perduto nella libidine, senza curarsi più della moglie, e cercando in tutt’altre parti pastura alle sue voglie impudiche», Ludovico Antonio Muratori.
(Ringrazio per la preziosissima collaborazione Adriano “Gastone” Gasti)