A guardare le regate in tivvù mi sono sempre annoiato.
Anche quelle spettacolari della Coppa America.
Con questo non voglio sminuire l’impegno e la fatica di chi è in grado di governare una barca, uomini e donne certamente con un fisico eccezionale e doti non comuni.
Tanto di cappello.
È che preferisco fare piuttosto che veder fare.
Fermo restando che a stento so governare un’automobile di media cilindrata.
Tornando alla regata, c’è un istante però che attira la mia attenzione, una manciata di secondi che necessita di una preparazione e che molto spesso diviene decisiva per le sorti della gara.
Il giro di boa.
Stringere intorno ad un punto curvando improvvisamente per invertire rotta.
E tornare sui propri passi con un’ottica opposta.
Da bambino vedi un oggetto, ne resti affascinato e per conoscerlo meglio ti avvicini, lo maneggi girandolo e rigirandolo nelle piccole mani e con le piccole dita per analizzare i piccoli particolari.
È la conoscenza che ti chiede di vedere da vicino, smontare per poi ricostruire in modo consapevole.
Dopo qualche tempo, venti trenta quarant’anni forse, l’orizzonte si restringe e devi prepararti a sterzare con prontezza per virare ed invertire direzione.
Solamente allora ti accorgi che avvicinarti ad un oggetto per osservarlo meglio vuol dire andare fuori fuoco, finire nella nebbia più totale, perdere i contorni e velare i colori.
Allora trovi il modo per riacquistare la definizione delle cose e delle persone: allontanare lo sguardo.
Prendere le distanze rappresenta dapprima una necessità e un gesto istintivo, quindi diventa un modus vivendi, essendo quella necessità una forma di sopravvivenza.
Fino alla prossima boa.