di Bruno Soro
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Senza una ventata di opinione pubblica mondiale, alimentata a sua volta dai segmenti più creativi della società – i giovani e l’‘intellighenzia’ artistica, intellettuale, scientifica, manageriale – la classe politica continuerà in ogni paese a restare in ritardo sui tempi, prigioniera del corto termine e d’interessi settoriali o locali, e le istituzioni politiche, già attualmente sclerotiche, inadeguate e ciononpertanto tendenti a perpetuarsi, finiranno per soccombere. Ciò renderà inevitabile il momento rivoluzionario come unica soluzione per la trasformazione della società umana, affinché essa riprenda un assetto di equilibrio interno ed esterno atti ad assicurarne la sopravvivenza in base alle nuove realtà che gli uomini stessi hanno creato nel loro mondo”.
Aurelio Peccei, Prefazione a “I limiti dello sviluppo, Rapporto del System Dynamics Group Massachussetts Institute of Technology (MIT) per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità”, Roma, maggio 1972.
L’amico Guido Manzone, che spero non se ne abbia se lo annovero tra i miei amici – dal momento che ci conosciamo da circa mezzo secolo, da quando cioè ricevette l’incarico dall’allora Sindaco Armando Pagella, nella prima metà degli“ anni ’60, di costituire il “Centro studi” del Comune di Novi Ligure -, continua a lanciare mirabili provocazioni. Corrispondente dell’Unità e attento divulgatore dei primi studi sullo “sviluppo sostenibile” del prof. Giorgio Nebbia, Guido Manzone ci ha offerto nelle scorse settimane un saggio della sua vasta cultura idraulica, rammentandoci che “nata sulle rive dell’Eufrate e giunta fino a noi passando attraverso gli Egizi, i Romani, gli Arabi nonché i popoli del Nord Italia che la portarono, all’epoca del Rinascimento al suo massimo livello”, chi non possiede tale cultura, “non è in grado di capire l’enorme quantità di intelligenza, di cultura, di esperienza risalente alla notte dei tempi che si concentra in città come Venezia, nata su una palude”.
Qualche sera fa, nell’ambito di una serata dedicata alle “acque”, ho avuto il piacere di ascoltare un profondo conoscitore della storia alessandrina, il cav. Ugo Boccassi il quale, facendo scorrere stupende foto d’epoca, ci ha raccontato che non è vero che Alessandria, come qualcuno ancora crede, sia stata costruita alla confluenza di due fiumi e come tale soggetta, di tanto in tanto alle alluvioni. I primi insediamenti della futura città di Alessandria insistevano a cavallo del fiume Tanaro e la città storica, costruita sulla sponda destra di questo fiume era ben protetta dalle sue esondazioni dalle mura che la circondavano. Sulle rive del Tanaro insistevano attività commerciali, sportive e ludiche (riservate queste ultime alle famiglie benestanti), mentre la sponda sinistra del fiume Bormida (considerato il “fuori porta”) era il luogo di raccolta e di socializzazione degli alessandrini meno benestanti. Alessandrino mio malgrado, sono grato ad entrambi di avere colmato, almeno in parte, la mia ignoranza sia nella cultura idraulica, sia nella storia di questa città, con riguardo alla quale, interrogato su quale fosse la città più brutta d’Italia, il prof. Umberto Eco, uno dei suoi cittadini emeriti, rispose, senza ombra di dubbio, “la mia”. Senza neppure specificarne il nome.
Sarà per questo che non smetto mai di stupirmi quando leggo scemenze come quella contenuta nel titolo del servizio pubblicato su La Stampa del 14 ottobre scorso: “Acqua, fango e paura. Il Basso Piemonte rivive l’incubo del ’94. Scuole e negozi chiusi: il Tanaro è 8 metri sopra il livello di guardia”. Cavolo! Ho pensato. Vuoi vedere che, abitando nel Quartiere Orti, sono stato nuovamente alluvionato “a mia insaputa?”. Tranquilli, il Tanaro a Masio (vale a dire a pochi chilometri da Alessandria), come chiunque avrebbe potuto accertare visitando il sito di Orti Sicuro (www.orti-sicuro.blogspot.it), dal quale si può accedere alle informazioni messe a disposizione da Arpa Piemonte sui livelli idrometrici in tempo reale, in quei giorni era addirittura al suo livello minimo! E’ vero invece che alla confluenza con il Tanaro, il fiume Bormida ha fatto registrare un picco, cresciuto di ben sei metri in poche ore in seguito alla piena del torrente Orba (a sua volta ingrossato dal Lemme, e dagli altri suoi affluenti minori, l’Olbicella, l’Amione e l’Albedosa).
L’esondazione della Bormida ha però interessato esclusivamente le aree golenali (nelle quali è previsto che esondi in occasione di portate eccezionali), restando in ogni caso al di sotto del livello idrometrico ritenuto “di pericolo”. Altra cosa sono gli allagamenti avvenuti a Gavi e a Novi, tanto per citare due casi, o nelle vallate a ridosso degli Appennini liguri, dove sono caduti anche 400 millimetri di pioggia in poche ore. “Banali acquazzoni”? Non direi.
Analogamente trasecolo quando su La Stampa di domenica 2 novembre viene riportata la notizia dell’allerta meteo attesa per le forti piogge che interesseranno il Nord Italia nei giorni 4, 5 e 6 novembre (in perfetta coincidenza con le celebrazioni del ventennale dell’alluvione del 1994) in questo modo: “Dopo tre giorni di nubifragio il Tanaro, alimentato dai 600 millimetri di pioggia caduti in 48 ore, crebbe a livelli spaventosi toccando il record di 9 metri all’idrometro di Farigliano. Si creò una gigantesca onda di piena che devastò decine di centri abitati fino alla sua confluenza con il Po portando via ponti, strade, caseggiati”.
Chiunque, ma evidentemente non l’estensore della notizia, sa che il Tanaro, a Farigliano, ha ancora un carattere torrentizio e che, essendo lungo poco meno di 280 chilometri, impiega circa tre giorni per giungere fino ad Alessandria. Nel novembre ’94, qui da noi, il fiume continuava a crescere ad un ritmo di circa 10 centimetri all’ora (l’‘onda di piena’ transita in circa dieci ore e non in un battibaleno). L’effetto disastroso di quella alluvione (è finita sott’acqua all’incirca mezza città, giungendo a lambire il Cimitero, ma anche la stazione, allagando Corso Roma e Piazzetta della Lega), va ricondotto, oltre all’enorme quantità d’acqua piovuta dal cielo (circa 850 millimetri nell’arco di tre giorni su tutta la regione), alla rottura della massicciata della ferrovia in località Via vecchia Torino. Poiché tra i binari della ferrovia (divelti nell’occasione) e il punto più basso del quartiere degli Orti (la piazzetta antistante la Chiesa di S. Maria della Sanità), c’è un dislivello di ben tredici metri, la rottura della massicciata della ferrovia ha provocato lo svuotamento di quell’enorme massa d’acqua formatasi in seguito all’intasamento del vecchio ponte della ferrovia tra il Tanaro e il tracciato della linea Torino-Alessandria. La rottura della massicciata della ferrovia, che fungeva da argine senza esserlo, ha avuto un effetto simile a quello della rottura di una diga, tant’è vero che ancora oggi molti alessandrini credono che la causa della disastrosa alluvione del ’94 sia stata l’apertura di fantomatiche dighe (peraltro inesistenti). Non è stata quindi l’‘onda di piena’ del Tanaro a provocare i disastri di allora, bensì un’ondata, questa sì con la forza di uno tsunami, che dopo avere aggirato la Cittadella ed aver attraversato il Tanaro in piena, si è riversata sui quartieri Osterietta, San Michele e Orti, provocando distruzione e morte (ben tredici vittime, in ricordo delle quali il Gruppo di Lavoro Alessandria Nord ha fatto erigere il monumento che insiste all’altezza della rotonda di Viale Teresa Michel).
Pertanto, bene ha fatto Guido Manzone a denunciare sul sito di Città Futura “il trionfo dell’ignoranza”. Ma non quella “una classe dirigente cialtrona ed infame – come lui scrive – [che] per coprire le proprie malefatte si è inventata i mutamenti climatici, che avvengono solo a cicli di centinaia di anni, e le cosiddette bombe d’acqua, in realtà banali acquazzoni”, quanto piuttosto l’ignoranza di coloro, giornalisti e non, che prima di scrivere non si documentano sui fatti realmente accaduti. E’ un vero peccato che Guido Manzone non sia intervenuto (se c’era non ha parlato) giovedì 30 ottobre all’incontro organizzato dall’ACSAL con il meteorologo Luca Mercalli in occasione della presentazione del suo ultimo libro “Clima, bene comune” (scritto in collaborazione con Alessandra Goria, edito da Bruno Mondadori nel 2013). Dalla ben documentata esposizione della professoressa Paola Rivaro, esperta di Chimica del Mare e appena tornata dalla sesta missione in Antartico per studiare i cambiamenti climatici, egli avrebbe potuto apprendere – come si legge nel quinto Rapporto dell’Intergovernmental Panel for Climate Change (IPCC), presentato a Stoccolma nel settembre 2013 -, che sono ormai acclarati (ossia provati da dati scientifici) i seguenti fatti: a) il riscaldamento dell’atmosfera e degli oceani; b) lo scioglimento dei ghiacci e l’innalzamento del livello del mare; c) l’aumento di CO2, e d) che l’attività antropica rappresenta una causa fondamentale di questi fenomeni. Detto in altri termini, l’uomo, che ha sempre subito gli effetti del clima, per la prima volta nella storia dell’umanità con le sue attività sta influendo su di esso con effetti che potrebbero rivelarsi catastrofici.
Che avesse ragione Carlo M. Cipolla quando, ben dieci anni prima di Aurelio Peccei (la prima edizione in lingua inglese di “Uomini, tecniche, economie”, pubblicato in traduzione italiana da Feltrinelli nel 1966 risale però al 1962), ammoniva: “Se l’umanità non farà uno sforzo enorme per auto-educarsi, non si può escludere completamente la possibilità che la Rivoluzione Industriale possa rivelarsi infine una calamità disastrosa per la specie umana”.
Le previsioni meteorologiche per i prossimi giorni non sono affatto rassicuranti: “noi speriamo che questa volta ce la caviamo”.