di Bruno Soro
www.cittafutura.al.it
“… poiché non succede mai che due paradigmi lascino irrisolti proprio gli stessi problemi, le discussioni sui paradigmi implicano sempre la questione: Quali problemi è più importante risolvere?”
T.S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1969
Commentando l’intervento che il Premio Nobel per l’Economia Joseph Stigliz ha tenuto nelle scorse settimane alla Camera dei Deputati (una sintesi della quale è rintracciabile sul sito www.sbilanciamoci.info), il professor Mauro Gallegati, uno tra i più brillanti giovani economisti italiani, scrive che “il vero rischio è che non si colga la possibilità di un cambio di paradigma, di un nuovo modo di vivere e di produrre” (“Cambio di paradigma” su www.sbilanciamoci.info). Pochi giorni dopo, in un articolo interessante, ancorché per molti aspetti questionabile, Giovanni Ajassa, Responsabile Servizio Studi del Bnl Gruppo BNP Paribas, asserisce che “Oltre a Keynes bisognerebbe rileggersi Kuhn” (“Da Keynes a Kuhn il nuovo paradigma”, Repubblica, 10/10/2012). Mi verrebbe da chiedere, per usare un’espressione cara a Matteo Renzi, “Kuhn chi?”
Thomas S. Kuhn (1922-1996), statunitense, filosofo e storico della scienza, ha dedicato gran parte della sua attività scientifica a studiare “come mutano le idee della scienza”, come recita il sottotitolo della sua opera più famosa (“La struttura delle rivoluzioni scientifiche”, citato nell’epigramma). Pubblicato sette anni prima presso l’Università di Chicago, il libro di Kuhn ha avuto una certa fortuna nei primi anni ’70 del secolo scorso anche tra gli economisti italiani. Ricordo, ad esempio, il seminario tenuto nell’ambito del Centro Internazionale Matematico Estivo (CIME) di Urbino, diretto dal matematico Bruno De Finetti (1906-1985), da un allora promettente giovane economista, il professor Michele Salvati, sulla portata rivoluzionaria del “paradigma keynesiano”. Una interpretazione, quella di Salvati, avanzata, paradossalmente, proprio negli anni in cui quel paradigma stava entrando in crisi in seguito alle critiche mossegli da quel filone di pensiero destinato a diventare, nel corso degli anni ’80, il “pensiero unico” dominante.
Introdotto nel linguaggio epistemologico da Kuhn, il termine “paradigma” starebbe ad indicare, così si legge sull’Enciclopedia italiana Treccani, “quel complesso di regole metodologiche, modelli esplicativi, criteri di soluzione di problemi che caratterizza una comunità di scienziati in una fase determinata dell’evoluzione storica della loro disciplina: a mutamenti di paradigma sarebbero in tal senso riconducibili le cosiddette «rivoluzioni scientifiche». Stando a questa definizione, non v’è dubbio che la macroeconomia keynesiana debba essere considerata un’autentica “rivoluzione scientifica”, dal momento che gran parte dei concetti in uso nel linguaggio economico contemporaneo, si ritrovano nelle discussioni e negli scritti che hanno preceduto la pubblicazione, nell’autunno del 1936 della “Teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta” di John Maynard Keynes (1883-1946).
Cito a caso i concetti della contabilità nazionale; il principio della domanda effettiva e le teorie della domanda effettiva (le teorie del consumo, del risparmio, dalle quali trae origine il processo noto con il nome di “moltiplicatore del reddito”, le teorie dell’investimento reale, della liquidità e del tasso d’interesse); i concetti della disoccupazione «involontaria» e della disoccupazione «tecnologica». Penso inoltre alle riflessioni sulle conseguenze sociali del mutamento di valore della moneta dovute all’inflazione e alla svalutazione, nonché i concetti in uso nell’economia internazionale (le relazioni prezzi-stabilità dei cambi e il ruolo, l’efficacia e i limiti degli interventi delle banche centrali), solo per citarne alcuni. Non vi è dubbio che tutte queste “innovazioni” concettuali appartengano di diritto al “paradigma keynesiano”: un paradigma che pone al centro dell’attenzione il momento della produzione, vale a dire i problemi dell’economia reale e delle connessioni tra questa e l’economia monetaria (funzionale e finalizzata, quest’ultima, al controllo del ciclo economico). Per contro, il paradigma dominante si basa invece sul momento dello scambio (scambio di beni e di servizi, ma anche di assets finanziari), tanto da essere stato efficacemente etichettato come il “paradigma della fiera del villaggio”. Ciò in quanto muove “dall’esame di una economia di baratto, di puro scambio, che viene via via complicata per renderla più realistica” [R. Bellofiore, Introduzione a H.P. Minsky, “Keynes e l’instabilità del capitalismo”, Universale Bollati Boringhieri, Torino 2009, p. x].
Trattasi di un paradigma che, facendo perno sul totem del «mercato» e supponendo che tutti i fattori produttivi siano dotati delle opportune elasticità, assume implicitamente che il sistema economico possegga la capacità di autoregolarsi, tramite l’aggiustamento dei salari (sempre verso il basso), e conseguentemente anche dei prezzi, facendo sì che il sistema economico possa riportarsi sempre in prossimità del pieno impiego. Un’ipotesi, questa, assolutamente inadeguata a spiegare le cause e la diversa natura delle crisi economiche. A maggior ragione, in presenza di una crisi come quella attuale, scatenatasi sui mercati finanziari e successivamente propagatasi all’economia reale, che dura da più di sei anni e che ha creato in Europa più di venti milioni di disoccupati. E’ del tutto illusorio pensare che se il capitale finanziario è in grado di spostarsi in ogni parte del globo con un semplice click su un computer, come accade nel «paradigma della City», questo possa valere in generale per l’attività produttiva, attività che richiede tempo per essere approntata (anni, per la maggior parte delle attività manifatturiere), ma anche per essere dismessa, lasciando in tal caso “in libertà” i lavoratori impegnati in essa.
Quando Giovanni Ajassa scrive che “Nei paesi europei gli ultimi tre lustri hanno visto dispiegarsi gli effetti del nuovo paradigma della globalizzazione”, egli semplicemente cerca di applicare ad una realtà globalizzata (un fatto, cioè, non una idealizzazione come accade in un paradigma), uno schema analitico che tutt’al più può andar bene (salvo il verificarsi di eventi rari sul tipo del «Cigno nero») allo scopo di interpretare quanto accade nel mondo della finanza. Analogamente, quando sostiene che la riforma del mercato del lavoro – sarebbe il caso qui di interrogarsi circa il fatto che il lavoro sia una «merce» scambiabile su un «mercato» – “è necessaria se si considerano gli effetti dell’applicazione su larga scala del paradigma tecnologico della globalizzazione”, egli mostra di essersi soffermato più sui titoli dei libri di Keynes e di Kuhn che non sul loro contenuto. Forse, e contrariamente a quanto Ajassa mostra di credere, liberato dalla camicia di forza rappresentata dalle sintesi contenute nei manuali (specie di quelli improntati alla cosiddetta «sintesi neoclassica»), il «paradigma keynesiano», può ancora insegnarci qualcosa nel comprendere la natura della crisi attuale e le modalità per il suo superamento.