I licenziamenti sono per giusta causa oppure sono per ingiusta causa. Solo per ingiusta causa possono intervenire l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e il Giudice per il reintegro nel posto di lavoro. Faccio alcuni esempi, come si dice: di vita vissuta. Gli operai, a differenza degli impiegati, se timbravano il cartellino orologio anche solo con un minuto di ritardo perdevano mezz’ora di salario.
Così G.G. usò la furbizia del pezzettino di carta appiccicato per mascherare la prima timbratura e sostituirla poi con un’altra. Il contratto di lavoro prevede provvedimenti disciplinari commisurati alla gravità: dall’ammonizione alla multa alla sospensione al licenziamento. Nel caso di G.G., dunque, al massimo una sospensione. L’avrei senz’altro difeso. Ebbene, il compagno G.G., giovane comunista, che era addirittura membro del Consiglio di fabbrica, non chiese nessuna tutela sindacale. Per vergogna. Sapemmo che se ne era andato licenziato, zitto zitto, con dignità (eccessiva, in fondo aveva rubato un minuto all’azienda che gli aveva rubato la salute).
Altro il caso di S.E. La direzione aziendale ci comunicò di averlo licenziato perché aveva superato il limite massimo di conservazione del posto, aveva fatto cioè giorni di malattia oltre al consentito dal contratto di lavoro. Licenziamento per giusta causa. Eppure ci opponemmo come Consiglio di fabbrica. S.E. aveva lavorato trent’anni in quell’inferno ambientale. S.E. aveva il torace, davanti e dietro, coperto da cicatrici tante erano le operazioni che aveva subìto. Le mostrava drammaticamente buffo, come buffi erano il suo cognome e nome. Se lei direttore lo licenzia, dichiariamo sciopero in tutta la fabbrica. Allora si poteva fare perché esisteva la solidarietà. Ma è un licenziamento per giusta causa, obbiettò il direttore M.A., devo rispettare la legge. Noi faremo lo sciopero lo stesso perché il contratto dice che il lavoratore “può” essere licenziato, non che “deve” essere licenziato. Non fu necessario lo sciopero.
L’azienda era sempre propensa a licenziare i poveracci. Quando si trattava di dirigenti era scandalo, e lo scandalo andava sopito, nascosto. P.B. si era costruito la cancellata di casa con l’acciaio dirottato all’azienda. Siccome era un ottimo aguzzino degli operai, è andato in pensione regolarmente. O.C., vice responsabile del reparto più grosso, scoperto per furti consistenti e protratti, se ne andò alla chetichella con una lauta buonuscita e andò a dirigere una associazione sportiva. Sempre sorridente come era sempre stato. L.C. era addirittura direttore di stabilimento. Capitò proprio a me, neoassunto, di verificare i documenti dei brogli amministrativi: mi nascosero in cantina per quell’accertamento contabile. Fu spostato ad altro incarico. Non mi risulta che sia stato licenziato.
Un caso ancora diverso quello di A.d.R.: falsificò i certificati medici per farsi rimborsare una protesi dentaria dal Fondo mutualistico. In quanto gestito dai lavoratori, e non dall’azienda, lo radiammo benchè spalleggiato da un sindacato, ma non poteva essere licenziato: l’avrei fatto volentieri perché aveva tentato di danneggiare i suoi compagni di lavoro, con quel sorrisino del furbetto del “così fan tutti”.
Non ho fatto nomi, ma tutti quelli che hanno lavorato con me sanno di chi sto parlando, e potrebbero continuare con altri esempi. Per ultimo faccio il mio nome. Fui reintegrato grazie all’art. 18 dal Pretore A.M. che non era “toga rossa”, anzi, secondo il mio avvocato M.F., era un fascista dichiarato. A mia difesa potevo “fortunatamente” contare già su un “curriculum” ventennale di rappresaglie ambientaliste che infine totalizzerà 23 udienze in tribunale, 7 cause in pretura, 4 in appello, 2 in cassazione, tutte concluse felicemente ma piene di sofferenze: 1 cassa integrazione, 3 trasferimenti, 10 anni di dequalificazione professionale, 9 mesi di inattività assoluta e retribuita, mobbing, oltre ad uno stillicidio di tentati provvedimenti disciplinari e vertenze minori. E, dulcis in fundo, licenziamento. Mi sarei risparmiato il tutto se non ci fosse stato l’articolo 18.
Lino Balza – Alessandria