Sull’altra sponda del Mediterraneo (2)
Raccontare il Marocco in chiave economica-sociale è impresa ardua. Invito il lettore a considerare quanto segue come osservazioni personali. La postilla potrebbe essere superflua ma è importante. Troppe volte si creano stereotipi e luoghi comuni perché si da adito a versioni derivanti da considerazioni personali e fuorvianti, che poco hanno a che fare con la realtà. Non detenendo la verità assoluta, e avendo solo visitato un terzo del Marocco, non posso pretendere che le mie parole siano veritiere in toto.
Kenitra si staglia lontano, all’orizzonte, piccolo fiore nel deserto a venti kilometri dalla capitale Rabat. A poco a poco che la macchina si avvicina, questo fiore sboccia ai nostri occhi depressi dal lungo viaggio. Ed eccola ora enorme, rossa e viva, però così povera e desolata e fatiscente. Le case sono basse e scarne, ammassate l’un l’altra e ogni quartiere recintato di un freddo muro. I campi che circondano la città sono saturi d’immondizia; bambini si ammassano tra i rifiuti alla ricerca di chissà che cosa. Questa città, edificata dai francesi e un tempo così prosperosa e gaudente, ora è una delle lande più povere del Marocco, un’immagine che vuole essere tenuta lontana dalle coscienze di chi può far qualcosa ma non lo fa. Certo di Kenitra esiste l’immagine graziosa e turistica di chi visita un luogo con gli occhi di chi sa che tornerà a casa. Ma di quelle periferie devastate dalla povertà, dove le case sembrano in procinto di cedere da un momento all’altro, migliaia di persone hanno fatto la loro casa e conducono le loro esistenze giorno dopo giorno, sopravvivendo, resistendo.
Le grandi città marocchine, Rabat, Fez, Tangeri e Casablanca per citarne alcune, superano la classica dicotomia tra centro e periferia. Potremmo dividerle invece in tre zone: il centro, al-medina al-qadima (la città antica), dove il tempo pare essersi cristallizzato ai tempi dei feroci mori e saraceni, un microcosmo retto da leggi proprie, dove non si può fare paragone con nessun’altra città del mondo; una periferia ricca e occidentalizzata, colma di ville e palazzi moderni, cartelloni pubblicitari e belle macchine, grandi ristoranti e bei parchi; una periferia povera, con enormi quartieri spesso recintati da alte mura, dove le case assomigliano più a baracche, dove “è meglio che un occidentale non entri se non vuole essere derubato anche delle mutande”. Qui la disoccupazione, l’assenza di welfare inteso come istruzione e sanità, la criminalità sono l’ordine del giorno. La gente si arrangia come può per sopravvivere.
Al di fuori delle città, è difficile trovare un paese florido. La differenza tra città e campagna è molto accentuata. Durante i miei spostamenti a Meknes, Rabat e Tangeri, non ho potuto non notare le vaste terre che accompagnano le strade: campi fertili e morbidi, grazie ai quali il Marocco potrebbe dare sostentamento e lavoro a milioni di persone. Eppure non vengono sfruttati a dovere e chiedersi il perché è più che legittimo. La maggior parte delle terre sono inutilizzate, e le restanti sono utilizzate male, salvo casi rari. La pastorizia è l’attività dominante, ma la coltivazione di frutta e verdura è ancora arretrata. È capitato di vedere qualche aratro tirato da muli. Certo questo accade nelle realtà più povere, fatto sta che accade. Il Marocco dedica la maggior parte del Pil al settore dei servizi e, negli ultimi anni ha visto una considerevole crescita dell’industria, tanto che il mese scorso re Muhammed VI ha iscritto il Marocco tra i paesi in via di sviluppo a pieno titolo, anche se resta complicato capire come mai non ci siano politiche più sostenute verso l’agricoltura. Posso dire senza tema di essere smentito che se il Marocco sfruttasse a pieno regime le proprie terre, potrebbe inondare il mercato europeo con ottimi prodotti a prezzi competitivi, con brillanti risultati in termini di occupazione e produzione.
La forbice tra ricchi e poveri rimane comunque ancora troppo accentuata. Pochi ricchi con tante risorse, e molti poveri con poche risorse. In ogni dove ci sono mercati a cielo aperto con oggetti di pessima qualità che almeno i poveri possono permettersi. Ho visto moltissimi carretti ambulante con cibo o vestiario, proprio come quello che fu sequestrato a Muhammad Bouazizi e che viene ricordato come il casus belli della Primavera Araba. Molti bambini sono costretti a elemosinare o a vendere fazzoletti, tanti altri aiutano i genitori nel lavoro, altri ancora vendono frutti ai bordi delle strade. La maggior parte di loro vaga per le periferie giocando a pallone o inseguendosi in una sorta di “Fulmine”.
D’altra parte, come già detto, ci sono i ricchi. Liberi professionisti, avvocati, ingegneri, industriali e medici, che conducono una vita agiata, spesso occidentalizzata. Vivono negli vecchi e sfarzosi quartieri francesi, e, del resto, parlano più francese che marocchino, andando a creare uno spaccato enorme nella società. La domanda mi è sorta spontanea: se i poveri parlano prevalentemente marocchino (parlano anche il francese, sia chiaro) e i ricchi tendono a parlare francese (ma parlano anche marocchino, sia chiaro), come può un’elitè governare un paese se vengono parlate due lingue diverse? Rischia di esserci una frattura culturale tra ricchi e poveri e questo potrebbe portare col tempo ad una crisi d’identità.
Che se ne dica, nonostante la ricchezza dei pochi e la povertà dei molti, e un’assordante assenza di un ceto medio che, a detta di alcuni professori dell’Al Akhawayn, va formandosi a poco a poco, il Marocco resta uno dei paesi più prosperi e sicuri del Medio Oriente e Nord Africa, merito anche di un re, Muhammad VI lungimirante e molto apprezzato, che ha saputo chiudere l’epoca oscura e repressiva del padre Hassan II, e che è riuscito ad avviare il paese verso una modernizzazione politica ed economica. I prossimi 10 anni restano una sfida insidiosa per il Marocco, considerati anche i problemi di un’area molto calda come quella Nord Africana. Rimane il problema jihadismo in Algeria e Mauritania, lo scontro con la popolazione Sahrawi, ma soprattutto le contraddizioni interne cui naturalmente viene esposto un paese in via di sviluppo. Disoccupazione, istruzione, infrastrutture, religione. E qui il dibattito comincia a farsi sentire, tra spinte riformiste e tentazioni conservatrici: quale Marocco?