A quindici anni non mi ponevo il problema.
Avevo altre cose a cui pensare: la bicicletta, acquistare l’ultimo LP di Dalla, la biondina della seconda B, come mi sta la giacca nera in pelle e via discorrendo.
A trent’anni non mi ponevo il problema.
Avevo in ballo mille progetti: il perfezionamento musicale, il matrimonio, studia perché non si finisce mai di imparare, la cravatta regimental oppure no, la macchina nuova da pagare a rate e così via.
Oggi non dovrei pormi il problema.
E invece eccolo lì, mi si ripresenta ogni mattina puntuale davanti agli occhi.
Ogni volta che alle prime luci dell’alba entro in bagno, accendo la luce e mi guardo allo specchio.
Ci sono cose impossibili da gestire.
In taluni casi è più facile gestire un’azienda, una folla inferocita, i tori di Pamplona, una moglie col battipanni.
Ve lo dice uno flessibile, nel titolo ma anche nell’anima.
Quando ti trovi di fronte quei pochi capelli che con tutto lo spazio che hanno prendono direzioni improbabili, quella sì è una situazione al limite dell’impossibile.
È come entrare da protagonista nei bellissimi telefilm anni Sessanta della serie “The twilight zone” (“Ai confini della realtà”). Un conto è vederli sul piccolo schermo, un conto invece è starci dentro.
Perché mai un branco di fili tendenti al bianco si ribellano sprezzanti ai vigorosi colpi di spazzola e alle violente folate di phon?
Quale misteriosa legge regola il rapporto tra cute, bulbo pilifero e capello?
Se è vero che la forza di gravità tira verso il basso, per quale motivo questi stramaledetti puntano arroganti verso lo zenith?
Metto in atto la tattica numero 12: taglio rasato, lunghezza 0,6.
Procede regolare per alcuni giorni, tre, forse quattro. Dopodiché il problema si ripresenta.
Bagno, luce, specchio.
Meglio non pensare.
Vi prego, lasciatemi così, come una cosa posata in un angolo e dimenticata.
Scusa, Beppe, ma non ho resistito.