Qualche sera fa ho visto in DVD il film tratto dal terribile romanzo di Jack Ketchum La ragazza della porta accanto (2007, regista Gregory Wilson) e, pur restandoci ancora una volta male per la crudeltà della storia (purtroppo vera), ho dovuto inevitabilmente constatare che per ragioni più che ovvie, l’intensità del romanzo è irraggiungibile (anche se mia moglie non mi ha affatto ringraziato per la visione condivisa). Vi ripropongo allora un sunto di un pezzo che scrissi nel 2009 all’uscita del libro, meritoriamente edito da Gargoyle Books.
“La sera successiva al giorno in cui aveva dipinto le persiane del suo nuovo appartamento della 52° Strada Est, Beth vide uccidere una donna in maniera lenta e orrenda, a coltellate, nel cortile del palazzo. Beth era una delle ventisei persone che assistettero a quella scena mostruosa e, come tutti gli altri, non fece nulla per impedire che accadesse.”
Inizia così un racconto straordinario scritto dal grandissimo Harlan Ellison. Titolo, Il guaito dei cani battuti, testo ante litteram e profetico delle contemporanee apocalissi metropolitane. In verità tutt’altro. Perché, per quanto trasfigurato (di poco) in chiave fantastica, Il guaito dei cani battuti è ancora oggi, a distanza di 35 anni, un allucinante spaccato di realtà, essendo dichiaratamente ispirato al turpe e rimosso omicidio di Kitty Genovese, avvenuto a New York in una notte di marzo del 1964. Costei, non ancora trentenne, venne stuprata e uccisa in un’orribile sequenza a più assalti nei pressi della sua abitazione, nel quartiere di Kew Gardens, distretto del Queens. Si appurò che almeno una trentina di persone assistettero dall’alto delle loro finestre all’aggressione e all’agonia della donna, ma nessuno si assunse l’onere di una qualsiasi iniziativa.
Come racconta Stephen King nella nota finale de La ragazza della porta accanto di Jack Ketchum, la ragazza venne accoltellata (e violentata mentre rendeva l’anima a Dio) quindi lasciata lì ad agonizzare per alcune ore. “Urlò ripetutamente per chiedere aiuto e un sacco di gente vide cosa stava succedendo, eppure nessuno alzò un dito per soccorrerla. Non chiamarono nemmeno la polizia.”
Le scandalose circostanze di quest’episodio furono riportate due settimane dopo in un articolo pubblicato sul New York Times dal giornalista investigativo Martin Gansberg e avviarono un filone socio-psicologico d’indagine, più che mai d’attualità, che fu battezzato in diversi modi: “effetto spettatore” (Bystander Effect), “complesso del cattivo samaritano” o “sindrome Genovese”. Primo soggetto di tale patologia collettiva: l’indifferenza, come meccanismo di difesa individuale o di gruppo, che scatta quando si viene coinvolti “in prima linea” in accadimenti di grande violenza e di altrettanto coinvolgimento emotivo. Com’è stato giustamente scritto da più parti, la storia di Kitty Genovese è divenuta una parabola puntuale dell’insensibilità nei confronti degli altri (le vittime), dimostrata in quell’occasione da alcune persone di New York, ma per estensione significativa applicabile all’umanità tutta. Harlan Ellison che non se ne occupò solo nel racconto citato, ma pure nel libro Harlan Ellison’s Watching, affermò che un uomo alzò addirittura il volume della radio in modo da non sentire le urla della Genovese e che i “bravi cittadini” coinvolti in quanto testimoni di un crimine dalla lunghissima durata (e quindi evitabile) erano ben più di ventisei.
Come riporta ancora King, il loro motto forse fu: “Non ditelo a nessuno”. Ignoranza di massa, incapacità ad assumersi responsabilità, vigliaccheria: dal caso Genovese nacquero indagini di psicologia sociale sull’effetto “bystander”. Gli studiosi sociali Bibb Latané e John Darley iniziarono una serie di ricerche sui motivi per cui spesso le persone non intervengono di fronte alle emergenze. I risultati dei loro studi, pubblicati nel libro The unresponsive bystander: Why doesn’t he help?, hanno aperto numerosi interrogativi, giungendo a sconfortanti risultati sul piano pratico. Il più diffuso nasce per imitazione, ovvero “non aiuto quella persona in difficoltà perché nessuna delle persone presenti lo fa.” Il fenomeno si chiama “ignoranza pluralistica”.
Le considerazioni che stiamo facendo scaturiscono, appunto, a ridosso del libro terribile di Jack Ketchum. Un insostenibile e malato spaccato di provincia americana che ti costringe a guardare laddove ci si augura di non dovere mai posare gli occhi – e per questo aspetto si può quanto meno capire l’effetto “bystander”. Una quattordicenne viene segregata e orribilmente torturata sino alle più estreme conseguenze dalla più insospettabile e convenzionale famiglia americana: una madre e i suoi ragazzi. Poi il contagio della brutalità compartecipata si allarga: prima il figlio dodicenne dei vicini (che è l’io narrante di nome David) e poi altri ragazzi ancora. Ognuno che arriva a metterci del suo nell’escalation dell’orrore. Per certi versi questo romanzo è assimilabile al film Martyrs di Pascal Laugier, opera notevole che ti costringe ad assumerti la tua responsabilità di spettatore senza il filtro ipocrita del moralismo o del grottesco. Sei dentro, sei bystander e compartecipe. Puoi rimandare al dopo-catarsi la necessaria scelta: da che parte stare? Lo puoi fare perché qui siamo dentro, comunque, all’opera d’arte. Ma non puoi avere dubbi su una possibile estraneità del tuo occhio.
La perla nera di Ketchum, che ogni fruitore adulto dell’altrettanto horror adulto dovrebbe leggere per obbligo scolare, ci costringe – come spesso fanno gli autentici capolavori – a ragionare sulla realtà che ci circonda. E allora come non ravvisare sinistre analogie non con il più clamoroso dei casi (Elisa Claps, Potenza) per il quale le similitudini con Kitty Genovese e con la poverissima Meg del romanzo si sprecherebbero, ma con tante, tantissime, altre “ragazze della porta accanto”?
Come ha immaginato Ketchum (che in realtà si chiama Dallas Mayr) per sé stesso o come ha riportato Ellison, esistono comunità, paesi, gruppi sociali (condominali?) “che sanno”. Che sanno e che tacciono perché così fanno tutti. La dodicenne Ottavia De Luise, scomparsa da Montemurro nel 1975, torturata nell’anima e nel corpo da più di un adulto. Cristina Golinucci scomparsa pure lei nei pressi di un luogo sacro nel 1992.
Ma può divenire un elenco senza fine quello delle “ragazze” o “ragazzine”, nelle cui scomparse o morti sono implicate decine di persone che sanno e che tacciono: da Denise a Emanuela Orlandi, da Simonetta Cesaroni a certe intricatissime diramazioni del caso “mostro di Firenze”, c’è un tristissimo imbarazzo della scelta.
Il caso Claps, suo malgrado emblematico dell’effetto “bystander”, sembra proiettarci quasi in un’altra Italia e in un altro, antico, periodo storico. Un omicida che dovrebbe apparire ben identificabile, un corpo nascosto con l’ausilio di più mani complici, una città in cui molti sanno la verità. Alla ragazza, fantasma suo malgrado in una chiesa infestata dai demoni, forse Harlan Ellison, in una dimensione parallela ma udibile “da questa parte”, potrebbe dedicare il seguente passaggio da Il guaito dei cani battuti:
“… La cosa si protrasse all’infinito, così come si era protratta all’infinito la morte di Leona Ciarelli. E Beth capì, grazie a quella coscienza comune che univa i sopravvissuti a ogni costo, che se coloro che avevano assistito alla morte di Leona non avevano mosso un dito, non era stato perché li aveva paralizzati il terrore, o perché non volevano essere coinvolti, o perché erano assuefatti alla morte da anni di massacri televisivi. Quelle persone erano i fedeli presenti a una messa nera inscenata perché così voleva la città, inscenata non una, ma mille volte al giorno in quel manicomio di acciaio e di pietra.”
Quando l’arte illumina il reale…
(Leona Ciarelli è nome fittizio della vittima alludente a Kitty Genovese)