A volte esistono [Il Superstite 202]

Arona Danilo nuovadi Danilo Arona

Dopo averci scritto su milioni di caratteri, dopo avere visto e rivisto quasi tutti i film girati sul tema, rieccomi qui a domandarmi come mai funziona ancora alla grande, e in maniera mi pare inarrestabile, l’archetipo del morto vivente che George Romero ci cucinò da par suo nel lontano (ma culturalmente molto vicino) 1968.

Alla domanda, non di lana caprina, abbiamo tentato qualche anno fa di rispondere in tre, anzi in quattro (perché al binomio Selene Pascarella/Giuliano Santoro, che con me ha collaborato nel redigere L’alba degli zombie. Voci dall’Apocalisse. Il cinema di George Romero per Gargoyle Books, va aggiunto il granitico Paolo Zelati), sfoderando tutto lo spendibile sul piano dell’analisi: la perturbanza psicanalitica dei morti viventi, i conflitti che in prospettiva incarna lo zombie, il suo stretto rapporto con quell’idea di Apocalisse che giace inculcata in ciascuno di noi (alimentata da una situazione sociale e mondiale in via di veloce e progressivo deterioramento), il dead come specchio del migrante, il contagio… Insomma, tutte quelle belle e logiche considerazioni che stanno a cavallo del mito, e anche dietro.

In verità nel 2011 tutti pensavamo di maneggiare materiali comunque fantastici, di pertinenza sostanziale del regno planetario della creatività condivisa che, proprio in George Romero ha individuato la vittima più illustre, scippato com’è stato nel corso di oltre quarant’anni del suo lampo di genio (gli zombie prelevati dall’oscurità delle giungle haitiane che zombizzano prima l’America e poi il mondo), prima per squallide questioni di copyright e poi per vero e proprio sciacallaggio culturale. Beh, ci sbagliavamo, tutti quanti. Il contagio zombie è una realtà di cui la cronaca, persino in Italia, ci ha regalato pochi e smunti flash subito censurati o mascherati da versioni di comodo.

Ben avrebbe dovuto metterci in guardia l’esistenza di serissimi prodotti non certoZombieVirus destinati all’industria del best-seller quali il saggio When Zombies Attack!: Mathematical Modelling of an Outbreak of Zombie Infection di Philip Munz, Ioan Hudea, Joe Imad e Robert J. Smith, eminenti studiosi di famose istituzioni universitarie, pubblicato in un volume collettivo a cura di Jean Michel Tchuenche e Christinah Chiyaka (Infectious Disease Modelling Research Progress, Nova Science Publishers, 2009), e il meno accademico ma non meno sinistro The Zombie Autopsies: Secret Notebooks from the Apocalypse di Steven C. Schlozman (Grand Central Publishing, 2011). Ovvero, come constatare che in certi ambienti, a certi livelli, già si sapeva. Ci si preparava.
A che cosa? Vedete voi. Un tipo divora il viso di un clochard a Miami nei pressi di un’autostrada e viene steso dalla polizia; uno studente nel Maryland uccide il suo compagno di stanza, ne mangia il cuore e parti di cervello; un altro tizio in Canada, attore porno gay, uccide un ragazzo e lo mangia pezzo per pezzo; in Cina un autista di autobus abbandona il suo mezzo in piena corsa e aggredisce una donna al volante, mordendola ripetutamente al volto. Il tutto sullo sfondo di una ipotizzata droga sintetica derivata da certi sali da bagno, sostanza forse consumata da uno “zombie” genovese (non morto, va da sé…) di ventisei anni che avrebbe aggredito la propria ragazza, staccandone il labbro a morsi, e pure sullo sfondo di un presunto virus su larga scala diffuso in Uganda tra i bambini preadolescenti. Il male classificato come Nodding Disease, una volta entrato in circolo, causerebbe dei veri e propri attacchi di follia, che porta i ragazzini a vagare senza alcuna meta per le strade, facendo loro mordere ogni persona che trovano sul loro cammino.

È ovvio che sono arrivate secche smentite a tutte le allarmistiche semplificazioni giornalistiche. Dalle autorità, da autorevoli giornali e dall’Agenzia federale americana per il Controllo e la Prevenzione delle Malattie. Smentita soprattutto la schematica ipotesi della “epidemia”. E, okay, le smentite ci stanno. Questi qui fanno il proprio mestiere. Anche se non dimentichiamo mai che a spanne è la stessa gente che autorizza la libera vendita dell’aspartame e dell’Aulin sui cui effetti quasi letali a medio termine nessuno più dubita.

Il fatto non è crederci o meno. Il fatto è che le notizie sono vere, documentate, e messe tutte in fila danno adito a ipotesi verosimili. Il termine va ripetuto: verosimili. Perché certi comportamenti “zombeschi” sono scientificamente plausibili. Da qui a ragionarla in termini di allargamento a piaga sanitaria non si fa molta fatica. E qui entra in gioco anche il cinema dei dead. Che per anni, soprattutto negli ultimi, ha lavorato in profondità, instillando nell’inconscio planetario il sospetto che noi possiamo diventare i nostri peggiori nemici. Mangiandoci a vicenda dopo essere resuscitati dalla morte, magari per colpa di un razzo su Venere o di un repentino cambiamento climatico. Ma saltando anche a piè pari il dettaglio di dover crepare. Basta un morso e sei contagiato. Diventi zombie senza essere per questo morto vivente. Eh, tutto questo è plausibile. Non scherziamo.
Come ha ricordato la dolce Selene Pascarella nel nostro libro per Gargoyle, un biochimico della University of Texas di Austin, Sean Michael Ragan, ha associato il quadro neurologico dello zombie al paradigma scientifico sui prioni, venuto anni fa alla ribalta con il morbo della mucca pazza:
«Il prione è una proteina flessibile collocata nella superficie delle cellule nervose che in seguito a una mutazione assume una forma errata accumulandosi nel cervello e provocando una degenerazione neuronale. La caratteristica principale di un prione errato è la capacità di convertire in modalità aberrata altri prioni sani. Un piccolo gruppo di prioni mutati può rovinare un’intera popolazione di prioni normali convertendoli uno per uno nella forma errata. Questo può avere conseguenze molto gravi man mano che aumentano nel corpo i livelli di proteina prionica trasformata. Infine, quel che è peggio, i prioni dalla forma errata sono contagiosi, così una piccola quantità di questi prioni può infettare e far ammalare un intero organismo. Non un virus ma una molecola impazzita dell’organismo. La prima malattia associata a molecole prioniche è stata lo scrapie, un morbo che colpisce le pecore il cui nome fa riferimento al prurito che provoca negli animali infetti. Attualmente le si ritiene responsabili delle encefalopatie spongiformi trasmissibili. Come il kuru, patologia endemica in alcune isole della Nuova Guinea, la malattia di Gerstmann-Sträussler-Scheinker, l’insonnia familiare fatale e il morbo di Creutzfeldt-Jakob, meglio conosciuto come variante umana del morbo della “mucca pazza”. Manifestandosi attraverso queste sindromi il prione mutato causa perdita di equilibrio, disturbi della coordinazione, cecità, demenza, disordini del sonno e porta il soggetto che lo ospita invariabilmente alla morte. La trasmissione per contagio di queste encefalopatie – normalmente diffuse per via genetica e famigliare – viene favorita dal contatto con tessuti infetti. L’ingestione di farine animali per i bovini, per l’uomo il trapianto di cornea, l’uso di strumenti contaminati, l’innesto di dura madre, l’estratto d’ormone della crescita umano da cadavere e, come emerso nelle recenti forme epidemiche, il consumo di parti del bovino che interessano la colonna vertebrale e i gangli, il cervello e le frattaglie. Nel caso del kuru si suppone che sia stato il consumo della carne di un individuo infetto per mutazione spontanea alla base di un contagio, via via allargatosi attraverso il consumo del cervello nel corso di rituali cannibalistici» (L’alba degli zombie, cit., pp. 185-186).

Potrei elencare fior di medici che abbracciano senza problemi l’ipotesi dei prioni nei confronti di un’ipotetica piaga simil-zombie. Ne cito solo uno, il fraterno amico Edoardo Rosati con cui ho scritto La croce sulle labbra uscito all’inizio dell’anno per Anordest, romanzo nel quale raccontiamo di una Milano sconvolta da un’oscura patologia infettiva in grado di trasformare le persone in assassini che vanno decomponendosi, uno stato fisico vicino per l’appunto a quello degli zombie. Edoardo, cui si deve l’impianto scientifico della vicenda, non ha avuto dubbi: per rendere totalmente credibile la storia, ha collegato i raptus e il contagio a un’encefalopatia provocata da prioni. «Nessun collega potrà attaccarci su quest’aspetto», esclamava l’amico alla consegna del manoscritto.
Verosimiglianza. È quella che fa paura, come accadde appunto durante la famosa trasmissione di Orson Welles (radiodrama ispirato a La guerra dei mondi di H. G. Wells), trasmessa dalla CBS la sera del 30 ottobre 1938. E su questo crinale esiste un documento, strepitoso a mio parere e poco noto (fa parte dei contenuti speciali del DVD L’alba dei morti viventi di Zack Snyder, il remake del 2004 di Zombi di Romero): si tratta dell’edizione straordinaria di Channel 3 USA che inizia a seguire il diffondersi dell’epidemia, dapprima scambiata per sommossa razziale, con tanto di collegamenti esterni con inviati speciali, interviste a medici, poliziotti allucinati, finte (più vere del vero) dirette da Los Angeles in stato di guerra tra zombie e forze dell’ordine, persino una diretta con la Casa Bianca. Venti, straordinari minuti di adrenalina pura, che devono molto a quel Max Brooks autore di Manuale per sopravvivere agli zombie (The Zombie Survival Guide: Complete Protection from the Living Dead, Three Rivers Press, 2003) e di World War Z. La guerra mondiale degli zombie (World War Z: An Oral History of the Zombie War, Crown, 2006), rispettivamente pubblicati in Italia da Einaudi e Cooper, nel 2006 e nel 2007.

Bene, se a qualcuno venisse in mente oggi di mettere brutalmente in onda questa “edizione straordinaria”, con la comprovata e generale incapacità critica – diffusa a largo raggio – di distinguere immediatamente tra vero e inscenato, si può star certi che il finto telegiornale, almeno sino a quando gli autori non svelano il gioco dopo una decina di minuti dall’inizio delle trasmissioni (mediante un grottesco Tom Savini che interpreta un poliziotto assatanato…), potrebbe essere scambiato per documento autentico, con tutte le conseguenze del caso.

Perché oggi nel circuito mediatico mondiale niente più è “falso” e niente più è “vero”. È solo tutto verosimile.