A volte si parte per raccontare, per permettere a chi sta a casa di comprendere qualcosa in più. Altre si parte per cercare di alleviare il dolore, dare una vita degna a chi ha perso ogni speranza. Altre volte ancora, purtroppo, le intenzioni sono peggiori.
I teatri di guerra sono sempre scenari complessi, dove spesso a chi decide i destini fa da specchio una massa di persone inermi, vittime di sangue o di paura.
Gli abitanti della Striscia di Gaza non ricordano un giorno senza paura. Fin dal 1948, quando la comunità internazionale decise le sorti di quella parte del mondo. Senza appelli. E di anno in anno, di decennio in decennio, di guerra in guerra, la loro situazione è sempre peggiorata. L’ultima offensiva lanciata da Israele l’8 luglio scorso, ‘Margine di protezione’, non vede ancora la fine. Dopo una serie di tregue temporanee si è ripreso a sparare. E le vittime palestinesi nella Striscia hanno superato le 2.000 unità. Ancor più i feriti: e molte di quelle persone porteranno per sempre sul proprio corpo del conflitto.
A Gaza, come in tutti i territori di guerra, però non muoiono solo gli abitanti locali. A rimanere vittima delle bombe sono anche i giornalisti, giunti sul posto per raccontare, aprire gli occhi a chi da quei posti vive lontano. Negli ultimi due mesi nella Striscia i reporter rimasti uccisi sono già cinque. Uno di loro era italiano, lavorava per l’agenzia di stampa americana Associated Press, aveva 35 anni e si chiamava Simone Camilli. Figlio di giornalista, non si accontentava di vivere di rendita. A suo padre, l’ex giornalista Rai Pier Luigi Camilli, aveva detto: “Se voglio fare il giornalista devo andare dove succedono le cose”. La sua non è stata una morte cercata, come purtroppo spesso si sente dire di quei reporter o dei cooperanti che rimangono vittima di un conflitto. Accettare il rischio di morire per fare il proprio lavoro, quello di informare, aiutare i più a comprendere la complessità del mondo, è una condizione nobile. Nessun desiderio di diventare eroi.
E Simone non era un eroe, come non lo erano Andrea Rocchelli (morto a maggio in Ucraina), Enzo Baldoni, Ilaria Alpi, e tutti gli altri che non ci sono più. Erano giornalisti veri. Lavoratori che si sono messi in gioco.
Così come in gioco si è messa l’associazione genovese Music for Peace che, dopo oltre 50 giorni di blocco forzato, in attesa dei permessi, è riuscita a far partire nei giorni scorsi il primo convoglio di aiuti verso Gaza. Una carovana composta da sette container e due ambulanze che trasportano cento tonnellate di alimenti e medicinali. La partenza, spiega l’associazione, è stata possibile grazie al ministero degli Esteri, la nostra Ambasciata al Cairo e le autorità egiziane.
L’impegno di Music for Peace va avanti anche sul territorio italiano, in vista di una nuova spedizione tra dicembre e gennaio. Anche ad Alessandria stiamo cercando di dare il nostro contributo. Dopo essermi impegnata personalmente a raccogliere in città il materiale da portare a Genova, sono state moltissime le persone che mi hanno contattata e hanno dato il proprio contributo. Proseguirò la raccolta ad Alessandria fino al 30 agosto, quindi voglio rinnovare l’appello ancora una volta. Sarà il nostro modo di andare a Gaza per cercare di alleviare un po’ quel dolore. Chi volesse contribuire può contattarmi all’indirizzo mail ilyleccardi@hotmail.com o direttamente sul mio profilo Facebook. Servono antidolorofici, antinfiammatori, antibiotici a largo spettro (per es. amoxicillina), acido tranexamico, anche in dosaggio per bambini. E poi siringhe, garze, cerotti, disinfettante ospedaliero. Il tutto in confezioni integre e con scadenza oltre ottobre 2015.