– All’inizio del Ventennio il tasso di disoccupazione era al 10,6 per cento, fece segnare il minimo nel 2007 (6,1 per cento) e continuò poi a crescere sino al 12,2 per cento del 2013.
– Nel 1994 quasi 6 milioni e mezzo di persone vivevano in condizioni di povertà, l’11,5 per cento della popolazione. Nel 2012 erano più di 9 milioni e mezzo, il 15,8 per cento.
– All’inizio la pressione fiscale incideva per il 40,77 per cento, nel 2012 per il 44 per cento.
– Le pensioni minime passarono dalle 602.350 lire al mese del 1994 ai 495,43 euro del 2013.
– Nel maggio 1944, quando si insediò il primo governo Berlusconi, lo spread era a 340 punti base; raggiunse il record minimo, sotto i 50 punti base, nel 1998 con l’ingresso dell’Italia nell’Unione monetaria (governo dell’Ulivo). Nel novembre 2011, nei giorni che portarono alle dimissioni anticipate di Berlusconi, il picco massimo: 575 punti base.
– I cittadini di origine straniera residenti in Italia erano mezzo milione del 1994, vent’anni dopo se ne contavano almeno cinque milioni.
Naturalmente il “Ventennio” è quello berlusconiano (1994-2014) raccontato da uno dei migliori giornalisti italiani, Enrico Deaglio, nel suo libro più recente: “Indagine sul Ventennio” (Feltrinelli Editore – marzo 2014) e i dati di raffronto tra l’inizio e la fine del periodo, sopra citati e riportati nel volume, meglio di tante analisi, ci dicono cosa sia stato e abbia significato per il Paese quel periodo.
Il racconto di Deaglio parte dall’alba del nuovo mondo, il ’94, e si occupa sì di Silvio Berlusconi, le sue origini la sua ascesa i suoi legami e i suoi padrini, i suoi alleati. Racconta, certo, la storia di un uomo e della stagione politica che lo ha visto dominare la scena. Stagione che sarebbe azzardato considerare chiusa. Più di tutto, però, si occupa di cosa sia stato e cosa sia ancora il berlusconismo. Il berlusconismo, dice Deaglio, “se ti prende da giovane è una brutta bestia, perché nasci senza aver visto altro; se ti prende da adulto è quasi peggio perché ti viene il terrore di morire prima che finisca”. E invece Berlusconi è durato (almeno) per un ventennio. Abbastanza per una vita intera, abbastanza per cambiare un paese, abbastanza per non ricordare più bene come eravamo prima. Cos’è stata l’Italia degli ultimi vent’anni? Un regime parafascista? Un paese della cuccagna che si è svegliato rovinosamente? Un grande reality show, dove ha vinto chi la sparava più grossa? Una finta repubblica, dove il potere vero era in mano a cricche e mafie (se non alla mafia vera e propria)? Tutte domande legittime, che è il momento di porsi e che, forse, possono persino trovare qualche risposta, ancorché provvisoria.
Romano Prodi – in una delle 12 interviste inedite presenti nel libro – si occupa, in particolare, della corruzione che, se ha accompagnato tutta la vita del nostro stato unitario, “la sua estensione e il suo approfondimento nell’ultimo periodo della nostra storia sono largamente da attribuire al continuo screditamento del ruolo dello stato e delle leggi. Con questo quadro di riferimento la corruzione diventa un fatto normale, che non deve nemmeno causare sensi di colpa. Diventa quasi l’espressione di un diritto”.
Grande è, nel Ventennio, la responsabilità delle opposizioni nell’aver sottovalutato il razzismo leghista e per aver avuto, la sinistra, un’incomprensibile subalternità nei confronti di Berlusconi. Deaglio è particolarmente severo nei confronti degli ex comunisti. “Il Pci, sapeva? Sapeva. Non poteva non sapere… Sapeva, taceva, trattava. Gli eredi del Partito comunista italiano non si accorsero della gravità di quanto stava succedendo in Italia. Quando se ne accorsero, non si opposero, sicuri di soccombere in uno scontro aperto. Non furono né intelligenti, né lungimiranti, né coraggiosi”. Le ragioni dell’interesse di Silvio Berlusconi per la politica l’autore le lascia declinare al presidente di Mediaset Fedele Confalonieri: lo fece perché “altrimenti noi oggi saremmo sotto un ponte o in galera con un’accusa di mafia”.
L’autore fa coincidere la fine del Ventennio, alla vigilia delle ferie estive del 2013, con la condanna definitiva di Berlusconi dalla Corte di Cassazione per frode fiscale e la successiva espulsione dal Senato. E la descrive come una fine ne eroica, ne drammatica. Non so, però, se oggi, alla luce del nuovo ruolo “costituente” che Berlusconi è tornato a rivestire grazie al “patto” detto del “Nazareno” siglato con il premier Matteo Renzi su riforma elettorale e della Costituzione, l’autore del Ventennio riscriverebbe lo stesso finale.
Il giovane e volitivo premier del Pd, contando sul forte consenso ottenuto alle elezioni europee e in presenza del declino fisico ed elettorale dell’ex cavaliere, lo ha rimesso in gioco costruendo con lui un asse privilegiato con l’obiettivo dichiarato di cambiare la legge elettorale e modificare la Costituzione. Una strategia giustificata dal fatto che tali modifiche non si realizzano a scapito o contro la/le minoranza/e, ma che, concretamente, punta ad un rafforzamento elettorale, suo e del suo partito, in un area non tradizionalmente di centro sinistra.
Il risicato voto di maggioranza che venerdì 8 agosto ha sancito, in prima lettura al Senato, la trasformazione della seconda camera in una struttura non più elettiva e legislativa ha, però, evidenziato una nuova presenza, decisiva con i voti, e da protagonista di Berlusconi. Sancita anche platealmente dallo scambio di congratulazione tra il ministro delle riforme Boschi e gli esponenti di Forza Italia. Adesso, di fronte ai pessimi dati dell’andamento economico che mettono in difficoltà il governo Renzi, Berlusconi, da un lato offre i voti di Forza Italia e, contemporaneamente, torna a richiedere una sorta di salvacondotto per ritornare a pieno titolo nell’attività politica.
Anche non volendo dare credito alle posizioni che sostengono una valenza del “patto del Nazareno” ben più ampia di quella ufficialmente dichiarata, risulta evidente che per il governo di Matteo Renzi sarà più difficile affrontare temi da sempre sgraditi all’uomo di Arcore. Quali una decisa lotta contro l’evasione fiscale e la corruzione, la riforma della giustizia, la punibilità del falso in bilancio e le regole e le sanzioni per il conflitto di interesse, un aspetto di cui nessuno più parla. Insomma, come è già capitato in passato, non si vorrebbe che ancora una volta sia il centro sinistra a ridare fiato e ruolo al protagonista del Ventennio, quasi non se ne potesse fare a meno.
E se in un contesto normale le regole devono essere discusse con l’opposizione e trattate con il suo leader forse è bene ricordare che, nel nostro caso, il medesimo è stato condannato. Come bene evidenzia in una recente intervista Giancarlo Caselli, “non esiste un Paese europeo in cui un uomo pubblico condannato a non fare politica da un tribunale per le sue gravi colpe viene ricevuto nelle sedi istituzionali e tratta con il governo”.
Ha ancora senso, quindi, riformare la Costituzione con Verdini?