di Giancarlo Patrucco
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Conosciamo bene, ormai, il mantra preferito dalla destra italiana di fronte alle incriminazioni, ai processi e alle sentenze che hanno segnato fortemente la figura di Silvio Berlusconi in questi vent’anni di potere. Quando la sentenza è di condanna, dicono lui e i suoi: giudici comunisti; potere impazzito, manovra della sinistra per distruggere l’uomo più amato d’Italia, visto che non è riuscita a batterlo nelle urne. Quando la sentenza è assolutoria, invece, prendono atto di come l’immacolatezza del capo sia stata finalmente riconosciuta da parte di un gruppo di giudici autonomi e indipendenti, non asserviti alle logiche politiche avverse e perverse della controparte.
Conosciamo anche come ha reagito l’altra parte: non si può colloquiare con un uomo così pesantemente colluso, plurindagato e plurinquisito; con un uomo di questa infima levatura morale, non si possono fare patti, né in Parlamento né altrove, sottobanco.
Sappiamo bene quanto questo tipo di affermazioni abbia negativamente pesato sui rapporti politici tra l’una e l’altra parte degli schieramenti opposti. Nessuno, a sinistra, poteva pensare di avvicinarsi a Berlusconi per tentare quelle sintesi programmatiche e legislative che sarebbero state in grado di portarci sul percorso delle riforme. Chiunque ci abbia provato, e chiunque abbia solo profferito questa intenzione, è stato duramente bastonato e ammonito severamente. Resta il fatto che le riforme sono rimaste al palo e adesso ne paghiamo le conseguenze.
Ma c’era un punto sul quale le due parti divergevano, almeno a parole. Mentre la destra gridava al complotto, la sinistra ne restava fuori e il suo mantra preferito era sempre lo stesso: le sentenze non si discutono, si applicano. Con ciò, dimostrando rispetto verso la ripartizione dei poteri dello Stato, cercando di tutelarne l’autonomia, l’indipendenza, l’imparzialità e tenendo aperta la porta della democrazia rappresentativa sancita dalla Carta Costituzionale: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali (art. 3).
Bello, vero? Fa piacere che almeno qualcuno se ne ricordi ogni tanto, perché questo articolo è ben lungi dall’essere attuato completamente ma ha trovato almeno a sinistra una sponda alla quale aggrapparsi.
Finora.
Adesso, però, dopo l’assoluzione di Berlusconi al processo Ruby girano sulla stampa e proliferano nel web i soliti retroscena di cui noi italiani siamo maestri. Qualcuno, per la verità, girava anche prima, quando Renzi stipulò il patto del Nazareno con Berlusconi: c’è qualcosa sotto; quel che affiora in superficie, già disdicevole di per sé, è solo la punta di quel che non si vede. Abominevole, perché il patto si estende a una sorta di salvacondotto per il capo di Forza Italia. Chiudiamo insieme il percorso di revisione costituzionale, poi nominiamo insieme il nuovo Presidente della Repubblica e, col cambio, arriverà anche la grazia. Voilà. Berlusconi è salvo e può rimontare in sella.
Ma, dopo la sentenza dell’altro giorno, si comincia a mormorare che dietro a quel patto segreto ci sia stata anche – come la vogliamo chiamare – una sorta di rassicurazione preventiva nei confronti dei processi in cui Berlusconi era implicato. Quella sentenza, dunque, diventa la prova provata che il patto (scellerato) esiste. C’è.
Non mangiate questa mela. Adamo la prese e fu buttato fuori dall’Eden. Se ne mangia anche la sinistra, quella mela darà frutti avvelenati perché si completerà l’ultimo tassello che serve a rendere perfettamente speculare la sua versione con quella di Berlusconi e dei suoi pasdaran.
Non mangiatela, altrimenti, guardandovi allo specchio, potreste trovarvi davanti l’immagine paciosa di Paniz o quella sarcastica della Santanchè.